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Quel che ci resta di Bill Watterson

Oggi è il compleanno di Bill Watterson. Non ho idea di come lo stia festeggiando, e il fatto che me lo stia prefigurando con un cappellino pon pon mentre soffia le candeline forse dice più cose su di me che su di lui. E sarò anche un po’ materialista, ma mi manca che nessuno si sia fatto prendere dall’ossessione, quella vera, e lo abbia fotografato in pantaloncini e infradito mentre va a fare la spesa nei sobborghi di Cleveland Heights, Ohio. Non c’è nessun Shane Salerno che si apposta con il teleobiettivo e scatta la sequenza che chiude Salinger, il documentario sull’eponimo scrittore statunitense in cui vediamo il novantenne autore de Il giovane Holden fare una commissione, bastone alla mano e sguardo pacifico.

Pochi ci hanno provato, e di quei pochi nessuno è riuscito a lambirlo, Bill Watterson. Del riservatissimo papà di Calvin e Hobbes oggi sappiamo che ha un po’ di artrite, sta studiando i maestri dell’arte classica e moderna (ammira Tiziano, Caravaggio, Egon Schiele, Lucian Frued) e sfoggia il pizzetto. Piccole banalità triviali sfuggite al controllo di un fumettista che, raggiunto il picco artistico, ha mollato tutto per andare a dipingere i paesaggi dell’Ohio con il padre.

Bill Watterson

Esistono, disseminate tra la carta stampata e internet, non più di dieci immagini raffiguranti Bill Watterson. Alcune sono abbastanza famose, perché sono quelle che sono circolate di più negli anni, e sono lo scatto in bianco e nero o uno degli autoritratti che fece all’inizio della carriera per le riviste che lo intervistavano (Plain Dealer, Honk, di nuovo il Plain Dealer), altre sono più rare – scatti dell’annuario (questo e questo), qualche foto sgranata, a mo’ di Bigfoot del fumetto, o col maglione.

Credo sia tutta una questione di controllo. Il controllo sulle cose, sul proprio lavoro, sulla propria vita. Ma perfino Salinger, che non pubblicò più nulla per paura che il controllo che aveva sulla pagina scritta non si traducesse in un equivalente guinzaglio sulla percezione che i lettori avevano dell’opera, continuò a scrivere e convertire i pensieri in parole. Watterson, dopo la fine di Calvin e Hobbes nel 1995, non ha voluto aggiungere niente al discorso fumettistico. Forse per quell’eccessivo bisogno di controllo o per la paura di perderlo, quel controllo. La chiama «sindrome della striscia del martedì». Il lunedì, dice, è facile sforzarsi e far uscire qualcosa di interessante ma il lettore se l’è già dimenticato, e il martedì sarà lì ad aspettare cosa hai in serbo per lui senza darti il credito che pensi di avere. È colpire la palla e fare un home run ogni giorno, il difficile.

Oppure si imbocca un’altra strada, quella che dipinge Watterson come un umano troppo umano che ha assaggiato la (modesta, nel grande schema delle cose; enorme, per la professione di fumettista) porzione di fama quotidiana e non ha saputo metabolizzarla. «Calvin e Hobbes ha creato un livello di attenzione e aspettative che non ho saputo come elaborare», ha ammesso a Mental Floss. E allora un giro di frase basta a ribaltare il senso di un esilio compiuto più per debolezza che per alterità.

Bill Watterson

Ciononostante, nell’ultima decade le sue apparizioni si sono fatte più frequenti di quanto ci si aspetterebbe da un salingeriano come Watterson. Sembra di essere tornati agli inizi della carriera, quando Watterson aveva lasciato che il suo desiderio di entrare nel giro dei professionisti prevaricasse sulla propria indole riservata. La vittoria del premio alla carriera al festival di Angoulême e la seguente nomina a presidente della giura lo hanno costretto a disegnare il poster per l’edizione 2015 e a fornire alcune tavole per la mostra in suo onore, ma nessuno – tra stampa, fan e organizzatori – si era illuso che l’autore potesse presenziare fisicamente alla fiera francese.

Poco prima, nel 2014, era tornato a far parlare di sé per la retrospettiva organizzata dal Billy Ireland Cartoon Library and Museum, l’istituzione a cui Watterson aveva donato oltre trecento originali. Il museo lo aveva convinto a farsi intervistare dalla curatrice, e la corposa conversazione era finita in Exploring Calvin & Hobbes, il catalogo della mostra (QUI trovate alcuni dei passaggi più interessanti).

Nello stesso anno era apparso su Perle ai porci di Stephen Pastis. Fu Watterson stesso a contattare Pastis dopo aver letto una striscia di Perle ai porci in cui veniva dipinto come l’esca perfetta per abbordare le lettrici. La vendita degli originali andò a beneficio del Team Cul de Sac, l’ente fondato da Richard Thompson per raccogliere fondi a favore della Michael J. Fox Foundation.

A Jake Rossen di Mental Floss era riuscito ciò in cui perfino il premio Pulitzer Gene Weingarten aveva fallito, quando nel 2005 aveva tentato di arruffianarselo portando in dono ai genitori di Watterson una prima edizione di Barnaby e lasciando detto che lo avrebbe aspettato in un hotel per tutta la giornata. La risposta, da parte dell’editore della Universal Lee Salem, era arrivata la mattina dopo ed era stata negativa. Pare però che si sia tenuto il Barbany.

Bill Watterson

Il successo dell’impresa di Rossen suonava ancora più bizzarro e inaspettato se si considera che, all’apice della sua fama, Watterson aveva rifiutato di visitare lo Skywalker Ranch, su invito di George Lucas, e di parlare al telefono con Steven Spielberg, che avrebbe voluto acquistare i diritti per realizzare un film animato. «Perché dovrei voler parlare con lui?», era stata la serafica domanda che aveva rivolto a Salem.

Our Interview with Calvin and Hobbes creator Bill Watterson uscì nell’ottobre 2013 senza un motivo ben preciso. L’editor-in-chief della rivista non si spiegò i motivi che portarono Watterson alla scelta, dopo che altri due tentativi erano andati a vuoto: «Forse è perché abbiamo connessioni con l’Ohio, o perché Jake si è presentato con modi giornalistici e professionali, invece che da fanboy. Abbiamo messo due fact-checker sul caso ma non eravamo sicuri fosse lui, finché la syndicate non lo ha contattato per chiedergli il permesso di usare un suo disegno come copertina della rivista».

Con intenti benefici, nel 2011 era uscito il suo primo disegno dopo sedici anni di silenzio, un dipinto di Petey, uno dei bambini di Cul de Sac. Non più tardi di qualche mese dopo apparve anche la sua locandina per il documentario sulla storia delle strisce, Stripped, che includeva anche gli spezzoni di una breve intervista audio a Watterson registrata per l’occasione. Sia nel poster per Angoulême che in quello per Stripped compaiono i due nuovi avatar di Watterson, un omino spelacchiato e un cane con le orecchie pendule.

Gli scritti ancora meno e tutti diretti a oggetti del suo amore: nel 2007 una recensione alla biografia di Schulz, in seguito qualche introduzione alle raccolte di Richard Thompson, il cui Cul de Sac mostrava dei bambini che erano l’opposto di Calvin. Perché Calvin è un bambino di sei anni che pensa come un adulto e celebra l’orizzonte senza fine dei boschi, i bambini di Thompson si comportano per l’età che hanno e vivono per le piccole cose delle strade. Calvin costruisce scene di epiche battaglie tra pupazzi di neve (o suicidi o incidenti automobilistici), a Petey bastano i diorami nelle scatole da scarpe per tenere sotto controllo il mondo e ad Alice disegnare facce allegre sui sassi sembra un passatempo più che sufficiente. Calvin è una figura flessibile, che «dà voce agli intenti più disparati», che si tratti di commentare lo stato dell’arte contemporanea o immaginarsi la cena di broccoli come una melma aliena senziente.

Bill Watterson

Il controllo era tutto ciò che gli interessava, nessun compromesso sarebbe stato abbastanza nobile, perché svendersi è più una questione di comprare, di accettare. Svenditi e quello che farai in realtà sarà accettare il sistema di valori, regole e ricompense di qualcun altro; nessuna offerta abbastanza generosa se il tempo speso a urlare contro gli editori superava quello passato a disegnare. «Ho lavorato troppo a lungo e duramente per ottenere questo lavoro e, una volta conquistato, lasciare che altre persone prendano possesso delle mia creatura. Se non potevo controllare il messaggio che veicolava la mia opera, allora il fumetto significava molto poco per me».

«Quando accetti la commercializzazione», spiega Stephen Pastis nel documentario Dear Mr. Watterson, «ti ritrovi a interagire con una marea di persone: il designer, il capo del designer, quelli delle vendite, e improvvisamente nella tua vita sono entrate sette persone che prima non esistevano e con cui non vuoi avere niente a che fare. Invece che passeggiare nella foresta, come immagino facesse, Bill avrebbe dovuto rispondere a sei telefonate che prima non avrebbe preso. Si tratta di perdita del controllo».

Se la vulgata vuole che abbia lasciato per le troppe lotte che ogni giorno ne logoravano lo spirito, Watterson ha spiegato nell’ultima intervista che gli ultimi anni sulla striscia erano stati non solo i migliori da un punto di vista contenutistico ma anche professionale: aveva chiesto e ottenuto tutto ciò che voleva, pieno controllo sulle licenze, rinunciando a milioni di dollari, almeno 300 secondo il direttore delle vendite della Universal («ma potrebbero anche essere di più, dipende dalle persone a cui lo chiedi e soprattutto da quanto Watterson fosse disposto ad andare in fondo con le licenze»), più spazio per le domenicali, più tempo per scrivere e disegnare. Era soltanto arrivato il momento di smettere perché sentiva di aver raggiunto la vetta.

Continuare avrebbe significato scendere, invecchiare, diventare anacronistici, un’ipotesi inaccettabile per un integralista come Watterson. Oggi quelle lunghe estati di nulla, in cui la noia stiracchia i confini del pomeriggio fin oltre l’orizzonte e spinge Calvin a escogitare i passatempi più insensati, facendogli dare, per la prima volta in vita sua, un valore al tempo, non troverebbero posto nella rigida agenda di impegni e appuntamenti che i genitori imbastiscono intorno alle vacanze dei figli.

Tra le righe e le parole delle poche interviste emerge come Watterson fosse segretamente attratto da un’unica forma di licenza, l’adattamento a cartoni. Al Philadelphia Inquirer nel 1987 disse che «l’animazione sembra una delle poche aree in cui potrei comunicare quello che sto cercando di dire sulla carta», salvo poi ritrarre tutto citando l’impossibilità del controllo totale sul prodotto. «Vorrei avere così tanto controllo creativo che m’impunterei per il massimo della qualità e realizzarlo sarebbe proibitivo».

«Ho sempre cercato di animare la striscia, anche se i personaggi non si muovono, con le espressioni, la prospettiva o qualche sorta di esagerazione». E anche Eric Goldberg, l’animatore dietro al Genio di Aladdin, nel suo manuale Character Animation Crash Course! scrive che una delle fonti d’ispirazione maggiori per chi vuole cimentarsi nell’arte dell’animazione sono le pose di Calvin e Hobbes, capaci di esprimere azione ed emozione in un singolo disegno. Sono disegni «pronti per essere animati», scrive Goldberg.

Di tutte le cose, l’animazione era quella che più lo tentava. Tazze o peluche di Hobbes avrebbero ricevuto il suo “no” categorico («se metti trenta pupazzi di Hobbes su uno scaffale in un supermercato, non stiamo più parlando del mio personaggio ma di un ninnolo troppo costoso»), ma sui cartoni si riservò quantomeno il beneficio del dubbio: «Non ho ancora deciso se vorrò mai vedere Calvin e Hobbes animati. L’idea di sentire la voce di Calvin mi spaventa», diceva nel 1989 al Comics Journal. «Non ho alcun interesse nel vedere Calvin e Hobbes animati», avrebbe detto alla fine nel 2013 a Mental Floss, ripetendo le stesse parole di ventiquattr’anni prima. Evidentemente, lungo la strada, aveva fatto la sua scelta.

A fine corsa, Calvin e Hobbes rappresentava il Watterson al suo meglio. Aveva assimilato le lezioni grafiche di Jim Borgman e Pat Oliphant e quelle narrative di George Herriman e Winsor McCay. La violenza con cui Ralph Steadman sparava l’inchiostro sulla pagina («È come disegnare con un coltello») si legava alla linea sexy di Walt Kelly, il cui pennello tratteggiava quegli amabili rigonfiamenti attorno alle curve.

«Herriman e McCay ci hanno dato qualcosa di meglio di semplici battute», disse alla fine degli anni Ottanta, riassumendo in poche righe la sua poetica. «All’epoca, il divertimento stava nel viaggio. La destinazione di ogni striscia era la stessa, ma ogni giorno si percorreva una strada diversa. Oggi, pretendiamo che la striscia sia finita il prima possibile, “dimmi solo la battuta, per favore”. Meno vignette e parole e disegni ci sono, meglio è. Penso che Pogo sia stata l’ultima striscia del tipo goditi-il-viaggio. È un peccato. Abbiamo perso ciò che i fumetti sanno fare meglio».

È una cosa che, con parole diverse, disse nel 1990 parlando alla propria alma mater, il Keynon College, che lo aveva invitato a tenere il discorso ai laureati di quell’anno. La verità, diceva, è che molti di noi scoprono quale sia la loro meta solo quando l’hanno raggiunta.

Lo stesso college avrebbe visto, quindici anni dopo, David Foster Wallace proclamare il suo Questa è l’acqua. In quel discorso, intitolato Alcuni pensieri sul mondo reale di qualcuno che l’ha adocchiato ed è scappato, Watterson parlava di integrità artistica e scelte, raccontava il suo lavoro come designer di loghi per auto e supermercati e di come nella vita non esistessero «successi fulminei». Lo stesso termine, “overnight success”, era utilizzato nel titolo del primo articolo mai dedicato all’autore, An Overnight Success After Five Years, pubblicato l’8 febbraio 1986 su Editor & Publisher, rivista dedicata al mondo dell’editoria.

Per quanto poco, quel primo pezzo doveva averlo reso orgoglioso. Era il frutto di anni di sacrifici e buchi nell’acqua, di lavori tediosi o troppo grandi per lui. L’esperienza come vignettista politico al Cincinnati Post lo aveva mortificato: erano state le sue prime pubblicazioni e per ogni lavoro pubblicato i suoi editor ne avevano scartati almeno tre. L’incarico, iniziato nel giugno 1980, era durato poco.

Sotto la soglia del professionismo, i suoi primi disegni erano stati disseminati nel giornalino della scuola e nell’annuario scolastico, a cui aveva collaborato come fotografo e fumettista. Qui c’è una vignetta che, per quanto acerba, riassume l’atteggiamento schivo di Watterson. In una vignetta, si disegnò insieme agli altri tre fotografi nella camera buia: lui era quello che aveva chiuso le palpebre.

Immagine dal documentario “Dear Mr. Watterson”

Dal 1995 quell’approccio è rimasto lo stesso. Parlando del suo ritiro, Bill Amend (FoxTrot) disse che «ci ha dato l’impressione che volesse continuare il suo viaggio e che volesse condividere i suoi nuovi lavori. Forse lo sta facendo, ma non pubblicamente».

In una delle prime interviste, al magazine Honk, l’intervistatore gli chiese se pensasse di lavorare alla striscia per sempre. «Sì, se il mercato mi sopporta», fu la risposta, salvo poi correggersi: «Non riesco a immaginare di inteventarmi vent’anni di gag, è moltissimo materiale. Ma se lo affronti giorno dopo giorno è divertente. E penso di avere ancora tempo prima di esaurire tutte le possibilità». Quasi trent’anni dopo, alla curatrice della mostra Exploring Calvin and Hobbes, avrebbe lasciato aperta una flebile possibilità, dopo anni di diniego, dicendo che «mi manca poter disegnare una striscia, avere l’opportunità di parlare a milioni di persone. Se trovassi un’idea che mi entusiasmasse la realizzerei, ma dovrebbe essere davvero diversa e inaspettata. E di certo non mi sono impegnato per trovarla in questi anni. Vedremo».

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