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FocusL'universo Valiant, iperbolico e umanista

L’universo Valiant, iperbolico e umanista

In seguito all’acquisto da parte di Shamdasani e Kothari, al ripensamento e al rilancio del suo universo, la rinnovata Valiant Entertainment ha gestito dal 2012 un pacchetto di personaggi e scrittori dotati di discrete potenzialità e molta libertà creativa.

Foraggiato dalla sincera passione dei proprietari, nonché da una intelligente campagna acquisti tra gli autori, questo piccolo cosmo creativo è cresciuto fino ad inglobare storie, motivi e narrazioni spesso persino più stimolanti della produzione media di DC e Marvel.

Leggi anche: Valiant, un successo di seconda generazione

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Valiant ha saputo difatti offrire ai suoi lettori personaggi che sfuggono alla mediocrità narrativa e alle rappresentazioni identitarie spesso banali delle concorrenti, senza troppo trambusto e senza dichiarazioni d’intenti velleitarie. Si pensi ad esempio a Faith, l’ottimistica supereroina nerd dalle capacità telecinetiche, le curve molto più che abbondanti e il lavoro da blogger: un ottimo esempio del modello alternativo di racconto di genere e declinazione del corpo proposto dalla casa.

Inoltre, anche senza lesinare sguardi direttamente rivolti al presente e ai nuovi profili del pubblico, gli architetti della casa editrice hanno scientemente proposto a più riprese scenari fantastici o di puro escapismo, come è lecito attendersi dalla comune tradizione supereroistica. Riuscendo peraltro a competere sul loro stesso terreno con i più illustri concorrenti, sia sul piano dei contenuti che su quello delle vendite. Non a caso Valiant è arrivata persino ad essere opzionata da Sony per un ulteriore rilancio cinematografico.

In questo quadro è stata fondamentale la selezione di diversi professionisti di talento e “stelle emergenti”, coinvolti per tessere le fondamenta delle storie, le sceneggiature e gli snodi narrativi principali. Autori quali Jeff Lemire, Matt Kindt, Joshua Dysart, Robert Venditti e altri sono stati selezionati in tempi poco sospetti. Con cognizione di causa. I proprietari e gli architetti principali dell’impresa puntano difatti a cercare un posizionamento di mercato e un’identità narrativa ben precisa, proponendo storie al tempo stesso iperboliche e umanissime, e confrontandosi poi sui risultati prima di pianificare il successivo approdo narrativo.

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L’universo Valiant è d’altronde un luogo finzionale dove poter trovare visigoti provenienti dal passato, dotati di armature aliene senzienti e pronti a confrontarsi con la geopolitica odierna (X-O Manowar), gruppi di psioti alle prese con presunti filantropi megalomani e narcisisti (Harbinger) o guerrieri voodoo che sfidano le forze occulte del mondo (Shadowman). Da simili esorbitanti premesse deriva un universo dotato di diverse potenzialità, in fase di continuo arricchimento e messa a punto. Un cosmo che peraltro non ha paura di offrire un alto grado di accessibilità ai nuovi lettori.

E il 2017, in Italia, con la pubblicazione in esclusiva di Star Comics, pare proprio un ottimo anno per cominciare a seguire le vicende di casa Valiant. Per questo abbiamo voluto presentare una selezione delle serie e degli archi narrativi più interessanti e recenti, decisivi per cogliere il ‘clima’ dell’ampio rilancio in corso.

The Valiant

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La saga, autoconclusiva, rappresenta un sontuoso esempio delle potenzialità narrative ed espressive dell’universo Valiant. Scritta con mirabile visione da Jeff Lemire e Matt Kindt, disegnata in maniera strepitosa da Paolo Rivera, mette in scena lo scontro ‘ultimo’ per antonomasia: quello tra la morte e la vita. Le due entità sono qui incarnate in personaggi ben precisi, la figura del Geomante (carica ereditaria sin dall’alba dei tempi, avatar della Terra) e il Nemico Immortale, ma s’adattano a meraviglia come simbolo ricorrente della letteratura d’ogni tempo e luogo. Il Nemico viene affrontato in primis dal Guerriero Eterno, sorta di soldato semi-immortale e deputato, in ultimo, ad essere sempre sconfitto e vedere massacrato il Geomante.

Si tratta, di fatto, della storia di un destino forzato e inevitabile, malinconico e crudele, intorno al quale raccogliere le schiere degli eroi. Non a caso la splendida apertura del volume richiama la letteratura epica e mitologica, legandola poi alla specificità Valiant e al presente narrativo del suo cosmo a fumetti. Il libro è una sorta di blockbuster illustrato dotato di profondità, anche contenutistiche, tutt’altro che scontate.

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Il tipo d’intrattenimento che si potrebbe immaginare prodotto da un James Cameron in gran spolvero. In particolare, tra frammenti horror, compulsioni action e parentesi intimistiche, risplende la figura di Bloodshot (soldato infestato dai naniti e macchina di morte incapace di sentimento) che finisce per prendere le redini del racconto e diventare centrale nella vicenda. Da qui, peraltro, prende il via anche Book of Death e il rilancio di Bloodshot Reborn.

Il volume è consigliato ai neofiti Valiant, che potranno godere della storia senza troppi patemi per la vasta schiera di personaggi presenti: nessuna conoscenza pregressa è davvero necessaria.

Bloodshot Reborn

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Dopo un travagliato esordio narrativo ed editoriale (diverse le saghe e i volumi all’interno dei quali ha un ruolo attivo), Bloodshot riceve nella nuova collana a lui dedicata una cura di nome Jeff Lemire. Il personaggio, partito come marionetta del complesso militare e industriale statunitense, è stato a lungo pilotato tramite innesti di memoria, cioè veri e propri falsi ricordi adattati ad ogni papabile scenario bellico. Come da copione Bloodshot ha poi cercato di ritagliarsi un profilo narrativo e una nicchia editoriale ben precisa, sfuggendo alle sue stesse origini. Bloodshot Reborn, e Lemire, permettono ora al personaggio di ricominciare a dovere, consacrandolo come figura a tutto tondo.

Nel rileggere questo anti-eroe, difatti, l’autore pone l’accento su diverse questioni cardine del fumetto militarista di ogni tempo e luogo, a partire da quella, spicciola, morale: “È giusto uccidere? Qual è il limite della violenza?”. Mancano, ad ogni modo, risposte semplici o univoche. Non pago, lo scrittore affronta alcuni nodi centrali nel problema della memoria e dell’identità, soprattutto se associato a quanti sono vittima di danni cerebrali.

Di fatto, Bloodshot, Lemire e il lettore vengono presi in un gorgo di allucinazioni, abuso di droghe e alcol, depressione e disperazione con i quali testare la sanità mentale e i limiti del soldato. Si tratta, cioè, di affrontare il disturbo post traumatico da stress, come declinazione di una nevrosi bellica fatta e finita. Il tema presenta comunque diversi “vantaggi” narrativi e viene affrontato con sagacia ed efficienza nello svolgimento del racconto. Se si considera che l’iterazione originale degli anni Novanta lo vedeva come semplice sicario prezzolato, si capisce quale sia stato il balzo evolutivo in fase di scrittura.

In più, Lemire è bravissimo nel conciliare queste tematiche con il sottotesto fantascientifico (Bloodshot è una sorta di apice transumanista dell’ingegneria biomedica e biomeccanica, quasi frutto di una singolarità come può intenderla Ray Kurzweil) e un’esecuzione ben piantata nei territori del thriller moderno, con punte grottesche e sequenze action (tra Seven e la saga di Bourne, per intenderci).

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A coadiuvare Lemire, nel primo volume intitolato Colorado, troviamo l’ottimo Mico Suyan e il suo tratto iperrealista, con chicca grafica finale di Raùl Allén. Nel secondo L’uomo analogico disegna un più classico e meno sorprendente Butch Guice. Il terzo volume della saga rilancia invece un futuro alla Mad Max, disegnato da un Lewis Larosa quasi fotografico, per poi riservarsi il diritto di sorprendere sino in fondo il lettore sul piano narrativo e lanciare il prossimo arco narrativo. In tutti e tre i volumi, il lavoro dei coloristi immerge la storia in atmosfere alla David Fincher.

Bloodshot, insomma, è una felice metafora della metamorfosi editoriale e contenutistica di casa Valiant. È peraltro in preparazione anche un film, al quale dovrebbe contribuire Eric Heisserer, già sceneggiatore di Arrival.

Ninjak

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Nel rilancio dell’universo Valiant, gli autori si sono trovati tra le mani diversi personaggi maneggiabili con qualche difficoltà. Tra questi, Ninjak. L’epitome di, be’, un ninja. Già comprimario di lusso di serie precedenti (X-O Manowar, dove viene introdotto come assassino e rivale del protagonista; Unity, nella quale entra a far parte del ristretto circolo di eroi) ora ha una pubblicazione a lui espressamente dedicata.

Britannico, nonché spia del MI6, milite sarcastico e assai dotato, Colin King trova dunque una precisa collocazione narrativa, smettendo i panni del jolly. La saga intitolata L’arsenale, difatti, nonché i File perduti, lo muovono all’interno di un universo spionistico diviso tra hi-tech ed action movie, arricchito con abbondanti dosi d’arti marziali. La miscela funziona. Si rivela poi particolarmente piacevole soprattutto quando mette da parte il senso del ridicolo e abbonda con esagerazioni narrative e personaggi sopra le righe.

È allora che l’universo all’interno del quale si muove il personaggio si trasforma in un irresistibile pastiche di monaci millenari, maestri shinobi, cospirazioni internazionali, furori guerrieri e vendette sanguinarie. Un sogno infantile eseguito come il colpo segreto e mortale che tanto avremmo voluto padroneggiare. Risulta al contrario meno convincente quando si dilunga in prospettive psicologiche e sentimentali, o traumi infantili tutto sommato poco credibili e coinvolgenti.

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Allo stesso tempo, però, il tentativo d’introdurre qualche sfumatura di umanità allarga la prospettiva sul personaggio e permette qualche scorciatoia interessante che potrebbe venire adoperata a dovere sulla lunga distanza. Peccato solo che qualche salto logico di troppo, nonché una qual certa leggerezza nel dosare un paio di cambi di prospettiva dei personaggi, rendano più caotica la narrazione.

Ad ogni modo Ninjak è una serie godibile, perfetta per chi vuole essere introdotto alle sorti, e agli esordi, del personaggio. I primi due numeri pubblicati in Italia lo dimostrano a dovere. In fondo, un ninja umorista dotato di diverse decine di gadget, alle prese con mercanti d’armi e agenzie di spionaggio, tra arti marziali e misticismo orientaleggiante, mantiene pur sempre un certo fascino. Testi di Matt Kindt e disegni di Clay Mann, non sempre al massimo dell’intellegibilità, ma efficaci.

The Delinquents

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All’interno del cosmo Valiant non mancano poi gli spazi per l’umorismo. I principali fautori di queste parentesi scanzonate sono quattro personaggi, divisi in due coppie e serie omonime: Archer & Armstrong e Quantum & Woody. I primi sono solitamente scritti da Fred Van Lente mentre i secondi vengono curati da James Asmus. Entrambe le coppie sono un concentrato comico e parodistico di degenero contenutistico e goliardia a tutto tondo.

Viaggiano tra comedy e demenzialità gratuita, sarcasmo, umorismo nero e risate crasse rivolte ai benpensanti. Dove Archer & Armstrong si divertono però a scorrazzare tra teorie del complotto ed eccessi fantascientifici e pulp, i secondi si muovono solitamente tra scorrettezza politica e reminiscenze da buddy movie. In questo volume autoconclusivo a titolo The Delinquents, gli autori delle due coppie si sono dunque ritrovati per premere il pedale dell’acceleratore, sino in fondo, rispetto ad entrambe le coppie e ai loro modi.

La storia prende l’avvio da uno stralunato scontro tra il mondo degli hobo e una titanica azienda alimentare (che sbeffeggia la Monsanto), e mischia l’epica del viaggio ferroviario all’interno del territorio statunitense alla critica volutamente grossolana dell’industria agroalimentare contemporanea. Dal punto di vista narrativo, come pura scelta stilistica e contenutistica, è molta la confusione sotto il cielo e di serietà non ve n’è traccia. L’impianto grottesco e caricaturale viene infatti spinto all’eccesso, in un trambusto cinetico e caotico che rasenta l’esaltazione dell’assalto sensorio puro e semplice.

Van Lente e Asmus accompagnano il lettore lungo un Grand Tour americano che sarebbe potuto finire nelle prime pagine di Dalla periferia dell’impero di Umberto Eco. E lungo il viaggio sembrano voler frullare l’intero patrimonio umoristico umano per infilarlo a forza nei protagonisti Valiant.

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Il risultato è un concentrato di follia piena di gag slapstick, demenzialità assortita e personaggi grotteschi. Funziona, scorre come acqua fresca, lascia soddisfatti ed ubriachi. L’unico neo è che viene un po’ sacrificato il sottotesto relazionale relativo ai quattro protagonisti, nonché lo scontro/incontro tra le loro diverse visioni del mondo, per favorire la riuscita delle singole gag. Inoltre qualche caricatura e un paio d’uscite metafumettistiche suonano un po’ facilone o grossolane, benché si tratti in ogni caso di risultati evidentemente ricercati.

Ad aiutare gli autori nell’impresa troviamo ad ogni modo i disegni di Kano. L’illustratore si dimostra molto abile nell’assecondare la carica caotica del racconto, inventandosi diverse soluzioni visive volte a frammentare le vignette, la griglia tradizionale e la stessa scansione narrativa o l’ordine di lettura, con qualche richiamo ideale al David Aja di Hawkeye. Al tempo stesso, in qualche occasione, l’insistenza nell’evitare di disegnare gli sfondi finisce per pesare. E qualche eccesso nella ricerca di soluzioni grafiche particolari rischia la maniera.

Avviso ai moralisti: contiene urina, vomito, zoofilia, sesso estremo, violenza del tutto gratuita, capre con il dono della partenogenesi, furto intellettuale, critica a Melvil Dewey e al capitalismo.

Book of Death

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La saga, declinata in due volumi, è un ulteriore capitolo autoconclusivo della narrazione Valiant. Pur prendendo infatti spunto da The Valiant e dal team Unity, funziona come storia a sé stante. Al centro, i tentativi del Guerriero Eterno di scongiurare un futuro apocalittico all’universo. Il mezzo principale è proprio la lettura del Libro della Morte, portato in dono da una ragazzina venuta dal futuro, Geomante di un’era di là da venire.

Il primo volume, che tratta da vicino le sortite del Guerriero contro un misterioso avversario, ha il difetto principale di risultare graficamente anonimo. Le matite di Robert Gill sono difatti tutt’altro che indimenticabili e non impattano a dovere sulle aspettative del lettore. Sul piano narrativo gestito da Robert Venditti, invece, la saga porta avanti discorsi interessanti relativi all’impatto dell’uomo sul mondo. E tuttavia manca del coraggio necessario per spingere fino in fondo le tematiche (peraltro non lontane da quelle messe in scena da Jeff Lemire su Animal Man, o da tutto il dibattito filosofico intorno al cosiddetto Antropocene), o affrontarle in maniera originale.

Per quanto piacevole e ben strutturata, la storia finisce dunque per ricalcare il classico scontro tra il bene e il male e riduce i personaggi principali, e i loro rapporti, a uno schema prestabilito ed esperito altrove in diverse, molteplici letture.

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Il secondo volume, al contrario, è una piccola gemma di “What if?” e racconta il destino ultimo (ipotetico?) di alcuni tra i personaggi principali, o più celebrati, della Valiant. Qui, complice la varietà stilistica nonché l’ulteriore libertà creativa, il piacere della lettura viene a trovarsi al centro, e scrittori e illustratori mischiano le carte per portare le loro visioni autoriali all’estremo. In particolare, The fall of Ninjak e The fall of Harbinger sono piccoli gioielli di stile, trovate narrative ed estetiche, in grado di mischiare fantascienza, metafisica e geopolitica senza colpo ferire.

Nel complesso i due volumi vivono di luci ed ombre, ma permettono una lettura piacevole e scorrevole. Inoltre, introducono il nuovo lettore al presente e al futuro del cosmo Valiant, ponendo le basi per saghe a venire, quali 4001 A.D. o la storia di Rai (già disponibili i primi tre volumi), ambientata proprio nel futuro di questo stimolante, malleabile, universo narrativo.

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