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FocusIntervisteTra Kraken e Dylan Dog. Intervista a Emiliano Pagani

Tra Kraken e Dylan Dog. Intervista a Emiliano Pagani

A seguire l’onda delle novità che l’editoria a fumetti ha sciorinato nell’ultimo lustro, Emiliano Pagani rischia quasi di perdersi nel mucchio. Nella marea montante di social, autopromozione continua e like diventati materia di scambio per la pubblicazione, un autore concentrato solo sui suoi fumetti finisce difatti per trovarsi fuori fuoco. Gli sguardi poco concentrati dei lettori – o almeno di quelli che scattano rapidi davanti al fenomeno del momento – finiscono per impoverire l’esistente e dimenticare la realtà dei fatti.

Realtà che racconta di uno scrittore abile ed elastico, in grado di partire dalla goliardia de Il Vernacoliere per poi sfoderare rasoiate d’ironia al vetriolo e un vero spirito anarcoide in combutta con Daniele Caluri, tra le pagine di Don Zauker. Negli ultimi anni, l’irriverenza di Nirvana non ha fatto altro che confermare le doti dello scrittore, che oggi torna con Kraken (Tunué), serissimo dramma sospeso tra mare e tormenti interiori disegnato da Bruno Cannucciari, e con una storia di Dylan Dog con Caluri. Lo fa a modo suo: senza clamori e urla esagitate, pensando a nient’altro che i suoi mondi, i suoi personaggi, i vecchi e nuovi lettori.

Leggi anche: I 13 momenti più blasfemi di Don Zauker, scelti dai Paguri

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Quali sono le tue opinioni riguardo al sistema editoriale a fumetti italiano e alla sua eventuale crescita?

Sinceramente non so se esista davvero questo grande aumento di numero di lettori, oltre che di fumetti prodotti. Guardando i social e partecipando alle fiere si ha l’impressione che sia così, ma spesso veniamo ingannati dalla cosiddetta “comfort zone” che ci creiamo con le nostre interazioni. Scorrendo la mia home di Facebook ho l’impressione che tutto il mondo legga fumetti, libri e che tutti guardino le migliori serie tv poi, nella “vita reale”, mi trovo invece ad avere a che fare con molte più persone che ignorano del tutto il mondo del fumetto e che guardano le fiction di Rai 1.

Di positivo, in questi ultimi anni, c’è l’aver portato il fumetto al pubblico della libreria di varia. Questo grazie principalmente a casi come Gipi o Zerocalcare, che hanno fatto numeri enormi dei quali però, credo, godano – giustamente e meritatamente – solo loro (e i loro editori). In sostanza non credo che il grande successo di questi autori possa essere utile al fumetto in generale. Anche perché non credo che esista un “mondo del fumetto” – o fumettomondo, come ad alcuni piace scrivere – in cui tutti possano riconoscersi. Vedo piuttosto autori (ed editori) diversi che fanno cose diverse e penso sia giusto e meglio così. Credo però che il loro successo abbia spinto molti editori a pensare ad un nuovo modo di pensare e promuovere fumetti, esterno ai canali tradizionali come edicole e fumetterie.

La critica negativa è legata all’eccessivo valore dato alla presenza sui social. Chiariamoci, i social sono importantissimi, direi fondamentali, per farsi conoscere e far conoscere la propria opera. Però usare il numero dei like di un autore come criterio per valutare se un’opera merita la pubblicazione, mi sembra leggermente deprimente. Questo è anche indice della poca voglia di rischiare. Si preferisce andare sul sicuro (anche se non è detto poi che i like si trasformino in fumetti venduti) magari con prodotti di qualità scadente, invece di spingersi verso qualcosa di diverso.

Passando a Kraken, come è andata la presentazione a Lucca Comics and Games?

A Lucca è stato un piccolo e inaspettato trionfo. Abbiamo esaurito le copie il penultimo giorno di fiera, siamo letteralmente stati presi d’assalto dai lettori e abbiamo ricevuto moltissimi complimenti, da loro ma anche da addetti ai lavori. Dico “inaspettato” perché noi eravamo convinti di aver fatto un ottimo lavoro, ma non era assolutamente scontato che questa cosa ci venisse riconosciuta dagli altri. In fondo per entrambi si è trattata di una “prima volta”. Io vengo dal fumetto satirico/umoristico/grottesco e Bruno da anni e anni di Lupo Alberto. Sì, è vero, prima di Kraken avevo scritto un Dylan Dog, ma Dylan è un personaggio talmente caratterizzato e codificato nell’immaginario collettivo, che ha regole tutte sue. Scrivere Kraken è stato totalmente diverso.

Ci sono stati riferimenti ideali, come Herman Melville o i disegni di Riff Reb’s?

Di riferimenti ce ne sono tantissimi e non così scontati come possono sembrare. Certo, Melville (chiunque scriva di mostri marini deve fare i conti con Melville) ma anche altri libri e fumetti che apparentemente non c’entrano niente. Penso a Manu Larcenet, ad esempio, più che a Riff Reb’s (che tuttavia adoro). Poi certamente film, dentro ci sono tanti film sul mare, immagini, scene che mi sono rimaste particolarmente impresse e sulle quali ho voluto costruire una storia (raccontarne una). Come dice un personaggio del fumetto: «In fondo le storie di mare si assomigliato tutte». Ed è così. Cambia solo il modo di raccontarle e la profondità alla quale si decide di scendere.

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Tra gli autori marinareschi, quali i formativi?

Non saprei, non sono un esperto di autori marinareschi. Sono nato, cresciuto e vivo in una città di mare e il mare è sempre stato importantissimo nella mia vita, come lo è tutt’ora. Sono sempre rimasto affascinato dai racconti di pescatori, di sirene, di creature misteriose che popolano gli abissi o che si nascondono nelle nebbie. Il mare mi affascina molto più dello spazio e l’abusata metafora secondo cui le profondità marine simboleggiano quelle dell’inconscio e dell’animo umano la trovo tuttavia molto stimolante.

Potrei dire Moby Dick, ma anche Fog di Carpenter, L’Isola del Tesoro, ma anche Master and Commander, Tifone di Joseph Conrad, ma anche la parte dei racconti del veliero nero di Watchmen, L’ammutinamento del Bounty e 20.000 leghe sotto i mari, Oceano Mare, Vita di Pi, Linea d’Ombra e tanti altri ancora…

In che maniera hai lavorato sui singoli protagonisti? Ci sono stati modelli particolari dai quali hai preso spunto?

No, non in modo particolare. Ho solamente ripreso degli stereotipi sempre presenti in storie di questo tipo, in mille libri e film del genere, cercando di dar loro profondità e divertendomi a scambiarne i ruoli, confondendo le aspettative del lettore. In verità mi sono divertito a giocare con i lettori, a giocare con la loro pigrizia, la loro presunzione e a dar loro uno scossone al momento giusto.

Ho immaginato il lettore come Serge, mentre il personaggio migliore, a suo modo e per quello che può fare per la sincerità con la quale agisce riconoscendo i propri limiti, a mio avviso è Roger. In fase di scrittura ho cercato di restare il più possibile attaccato alla realtà, anche nei dialoghi, come nelle azioni, perché la paura dei mostri passa, la paura della vita reale, no.

Un plauso particolare va all’atmosfera creata dalle tavole di Bruno, come ci avete lavorato?

L’atmosfera è la vera protagonista della storia. Con Bruno ne abbiamo parlato a lungo, prima che iniziasse a disegnare, perché volevo essere sicuro che avesse capito quello che avevo in mente. Naturalmente, come è possibile vedere dalle tavole, non solo lo ha capito perfettamente, ma ha superato le mie più rosee aspettative. Ma oltre a parlarne, mi sono dilungato molto, in fase di trattamento e di sceneggiatura, per riuscire a rendere l’idea dell’atmosfera cupa, appiccicosa, salmastra con puzza di pesce e alghe marcite.

Un’atmosfera di isolamento, di crisi, di decadenza (economica, morale ed esistenziale) che doveva farsi pian piano sempre più opprimente, con l’andamento della storia. Prima ancora della scena, descrivevo l’atmosfera che volevo si respirasse. L’isolamento geografico, ma anche culturale ed economico, risveglia sempre paure e nevrosi. Una cosa alla Dogville di Lars Von Trier, per capirsi, ma gli esempi in tal senso sono moltissimi.

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In un certo momento del racconto due dei protagonisti, Serge e Roger, discutono di tradizione. In che maniera ti rapporti alla tradizione del fumetto, ma anche in generale? Se considerassi Il Vernacoliere un’istituzione tradizionale e un solido pilastro della comunità toscana e italiana tutta, commetterei blasfemia?

Io sono terrorizzato da chi parla di tradizioni. Le tradizioni non significano niente. Cosa sono le tradizioni? Il delitto d’onore è una nostra tradizione? No, io sono a favore del progresso, del cambiamento, dell’evoluzione. Però non mi riconosco in Serge. Serge è presuntuoso, ma durante il suo dialogo con Roger, quest’ultimo gli fa capire (o almeno ci prova) che quello che lui scambia per cieco rispetto delle tradizioni è in realtà mancanza di possibilità di scelta. Riguardo alla tradizione del fumetto, mi pongo esattamente come riguardo alle altre tradizioni. Grandissimo rispetto e ammirazione per i maestri e per i personaggi storici, ma cerchiamo di andare avanti, per favore.

Non a caso, uno dei miei grandi sogni sarebbe poter fare un Diabolik, un Diabolik diverso, però mi piacerebbe poter fare (o comunque provare a fare) con Diabolik quello che Ennis ha fatto con il Punisher, magari solo per un albo speciale, non so. Riguardo al Vernacoliere, no, non ti sbagli. Si tratta di un’istituzione, ormai (e, in quanto istituzione, ha perso la propria forza rivoluzionaria). Ce ne accorgiamo anche oggi, dopo quasi dieci anni che non collaboriamo più, la gente, soprattutto a Lucca Comics, ci riconosce per “quelli del Vernacoliere” e ci cita a memoria le battute di storie che non ricordiamo neanche. E continuano a chiederci di tornare a fare le stesse cose che facevamo 15-20 anni fa.

A proposito di tradizione, no?… Il lettore, di norma, è un conservatore. Dagli una cosa che gli piace e ti chiederà sempre quella, arrabbiandosi persino con te se provi a cambiarla o se addirittura osi concluderla. Una folla di Misery, anzi di Annie Wilkies. Invece ritengo che un autore non debba seguire i gusti dei lettori ma, anzi, provare a far sì che siano loro a seguire i suoi. Non dare ai lettori quello che vogliono, ma quello di cui hanno bisogno. «Mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa», diceva Pazienza, e aveva ragione.

Nel libro ci sono diversi riferimenti anche a questioni ambientaliste e si riflette su quanto la mano dell’uomo cambi la terra e il mare. In questi anni si parla molto di Antropocene, l’era nella quale la specie umana sta radicalmente e definitivamente cambiando l’intero globo. È un argomento di cui ti occupi?

La cosa mi interessa e molto. Dal punto di vista ambientale, ma anche dal punto di vista sociale. I cambiamenti mi appassionano e le loro conseguenze pure. Mi fa riflettere l’impatto dell’uomo sull’ambiente, ma anche l’impatto delle civiltà occidentali sul cosiddetto terzo mondo. Il fatto che, nonostante quello che dicono (e purtroppo anche pensano) in molti, qui in Europa siamo dei privilegiati, che abbiamo vissuto finora (noi e l’America ancora più di noi) con un tenore di vita reso possibile dallo sfruttamento indiscriminato delle risorse ambientali e umane di paesi poco sviluppati (o mantenuti in quello stato per nostro interesse).

Mi interessa, a maggior ragione, oggi che le cose stanno cambiando, con l’immigrazione e con l’affermazione economica di Paesi come la Cina o l’India. Ma non ho scritto la storia di Kraken per parlare di queste tematiche, anzi. Se ci sono entrate, ci sono entrate marginalmente perché la storia andava in una certa direzione e anche per dare una connotazione temporale moderna.

Anche la dimensione economica ha il suo spazio. I “gabbiani che seguono gli avanzi” sono una similitudine particolarmente calzante. In che modo pensi che, nel mercato editoriale e fumettistico, ma anche nella società in generale, si creino queste dinamiche?

Eh, domandona bella grossa. Non so, non saprei. Quella è una citazione che ho preso in prestito da Larcenet. Mi aveva colpito anni fa, al punto da restarmi impressa nella mente e mentre scrivevo la storia mi è sembrato naturale usarla in quel contesto dove, a mio avviso, avrebbe assunto ancora più forza che non nel libro originale (mi si perdoni il peccato di presunzione). Come potrai immaginare, leggendo le risposte precedenti, non penso un gran bene di chi segue le mode, i successi, i filoni, sperando di raccogliere le briciole di un successo o di poter godere della scia di luminosità di una stella vicina. Preferisco chi rischia, chi cambia, chi prova, sperimenta ma soprattutto chi fa le cose che gli piacciono, per sé stesso e non per andare incontro a una moda o al gusto comune di quel determinato momento.

Una cosa della quale ho scritto, mesi fa, sollevando una certa discussione in rete, è il fenomeno dei fan (li avevo chiamati “lovers” per contrapporli agli “haters”) sempre accondiscendenti verso un autore. Ecco, credo che urlare sempre GENIO, MITO, GRANDE a qualsiasi cazzata pubblicata dal proprio autore preferito (parlo anche di me, io ne pubblico tante di cazzate) possa far portare il suddetto autore (o il suo editore) a pensare che sia vero e che, in fondo, basti poco, giusto il minimo sforzo, per ottenere successo. Questo modo di ragionare non può che portare ad un livellamento verso il basso, davvero sconfortante.

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In Kraken tratti anche dell’infanzia e di alcuni suoi tratti problematici. Ci sono opere particolari che ti hanno colpito in tal senso?

Credo che gran parte di ciò che siamo, che diventiamo, sia dovuto alle esperienze che abbiamo avuto durante la nostra infanzia. Per questo la ritengo (ma non credo di dire niente di nuovo, almeno non da quando esiste la psicanalisi) un punto cruciale della formazione di una persona. Detto questo, tutte le opere, tranne le commedie, che hanno come protagonisti dei bambini mi appassionano: It, Lasciami entrare, Stand by me, Il signore delle mosche, Huckleberry Finn, Pinocchio, Il labirinto del Fauno, Dickens, C’era una volta in America. Le suggestioni sono sempre tantissime.

Anche il concetto di sacrificio è fondamentale. Da dove ti è nato questo tema?

Mi interessa il sacrificio. Mi interessa scoprire, o almeno analizzare, quanto siamo disposti a sacrificare e per cosa. Sacrificare libertà in cambio di sicurezza, speranza in cambio di conoscenza, innocenza in cambio di comodità. «Cold comfort for change», cantavano i Pink Floyd in Wish You Were Here. Ecco, tutte queste versioni che ho appena elencato, e magari anche altre che al momento mi fuggono, le trovo molto presenti nella nostra società. Ma non sono un sociologo, sono uno scrittore di fumetti per cui non vorrei avventurarmi in analisi che non mi competono, rischiando di dire banalità agghiacciati. Sono terrorizzato dalla banalità e penso che in campo “artistico”, ma non solo, sia una delle cose peggiori.

In che modo tu e Bruno Cannucciari avete organizzato il lavoro?

Con Bruno ci siamo conosciuti, grazie a Daniele Caluri e a Luca Montagliani, durante una cena da U Giancu, a Rapallo. Abbiamo passato la notte sul lungomare a chiacchierare, quasi fino all’alba, insieme a Massimo Bonfatti. Abbiamo capito subito di essere in sintonia, ma dopo quella volta ci siamo persi di vista. Anni dopo, mentre stavamo progettando la seconda stagione di Nirvana per Panini Comics, ci siamo accorti di essere in ritardo clamoroso con i tempi e di aver bisogno di un inchiostratore. A Daniele è venuto in mente Bruno, per la bravura, per l’estrema versatilità del suo stile, comunque cartoonesco, e anche perché è un tipo con il quale ci eravamo trovati bene.

Solo che, pensavamo: ti pare che uno come Bruno Cannucciari accetta di inchiostrare le nostre storie? Lo abbiamo chiamato, più per fare un tentativo che per altro, e Bruno invece si è subito dichiarato entusiasta di poter inchiostrare Nirvana. Insieme ci siamo divertiti tantissimo, abbiamo sperimentato e siamo giunti alla fine della serie con il proposito di fare qualcos’altro insieme. Quando gli ho mandato il trattamento relativo a Kraken, Bruno si è entusiasmato a tal punto che abbiamo iniziato subito a parlare dei personaggi e delle atmosfere, ancor prima di aver trovato un editore. Ma era un problema secondario, perché tanto lo avremmo fatto comunque.

Per Kraken abbiamo scelto un tratto non eccessivamente realistico che cambia lentamente (così come cambiano i colori e i paesaggi) con l’avanzare (o sarebbe meglio dire: lo sprofondare) della storia. Abbiamo evitato le onomatopee così come le linee di movimento, che connotano parecchio un certo tipo di fumetto, per andare invece al sodo, in modo chirurgico ma non freddo. Una sorta di Dogma, sempre per tornare a Von Trier. Nei balloon dove non si capisce cosa dicono i personaggi ci sono scarabocchi, per dare il senso che sì, stanno parlando, ma a noi (o al personaggio interessato) arrivano solo suoni incomprensibili.

Una volta d’accordo su queste linee, il resto è stato molto più facile. Gli ho consegnato la sceneggiatura completa e Bruno ha iniziato a disegnarla. Ma prima di iniziare, ne abbiamo parlato a lungo. Ci siamo consigliati libri da leggere (uno dei primi è stato Le particelle elementari di Houellebecq. Cosa c’entra con Kraken? C’entra, tutto c’entra sempre in quello che facciamo), film da guardare, fotografie, etc…

Lavorando prevalentemente con persone che conosco bene e che apprezzo sotto diversi punti di vista, sono abituato a lasciare molta libertà agli autori con cui collaboro. Questo anche perché sono sicuro che il lavoro che ne verrà fuori sarà migliore se potrà essere la somma di due sensibilità, piuttosto che la mera esecuzione di un compito. Mi piacerebbe di poter dire che anche questa volta è stato così, ma non sarebbe del tutto vero. Proprio perché per me era fondamentale riuscire a rendere una certa atmosfera che avevo in mente, le pagine di sceneggiatura di Kraken sono molto dettagliate. Alcune in particolare lo sono in modo maniacale. Ma Bruno ha capito benissimo e anche in questo è riuscito a superare le mie più rosee aspettative. Quando, a gruppi di dieci pagine alla volta, mi andava le matite, poi le chine, e poi il colore, non avevo quasi mai niente da dire, se non: «Cazzo, Bruno, sono una meraviglia!»

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Come hai lavorato invece in termini di scrittura e sceneggiatura?

Una volta scritto il trattamento (non riesco a scrivere soggetti, scrivo solo trattamenti delle mie storie), iniziare a buttare giù la sceneggiatura è stato puro godimento. Ho cercato qualche notizia sul Kraken, su questa creatura mitologica, ho inventato il nome del paesino, cercato foto dei paesi simili che potessero servire a Bruno come riferimento (lo stesso per i volti dei protagonisti: ho cercato volti di attori o personaggi comunque esistenti), pensato a nomi che mi potessero “suonare bene”, etc… Il cartello, quello sui gabbiani, che Serge vede quando arriva al paese dei pescatori, lo avevo visto e fotografato durante un viaggio a Saint Ives, in Cornovaglia.

Per il resto ho cercato di metterci dentro tutte le suggestioni che avevo preso da storie simili lette, ascoltate o viste, in passato. Elaborare tutto, collegare cose apparentemente distanti tra loro e creare così un qualcosa di diverso e mio. Scrivevo solo di mattina, ma in un mese (da metà ottobre e metà novembre 2016) l’intera sceneggiatura era finita. Ma scrivere Kraken non è stato per me molto diverso dai miei lavori passati. In molti mi hanno domandato se fosse più complicato, per uno che veniva dal fumetto umoristico o satirico, dover scrivere una storia drammatica, con risvolti, se vogliamo, anche horror, ma non è stato affatto così, anzi.

Io ho sempre avuto la pretesa (e la regola ferrea) di scrivere prima di tutto una storia che funzioni, che giri bene, che appassioni, che abbia un senso e che “torni”. Poi su quella inserisco le battute, i significati satirici e mi diverto a smontare le parti drammatiche per renderle grottesche e comiche, a volte solamente spostando una vignetta o sostituendo una singola parola con un’altra. Prima di distruggere, bisogna saper costruire, prima di destrutturare, bisogna conoscere alla perfezione la struttura.

Come vi siete imbattuti in Tunué?

Conosco, anche se solo superficialmente, Emanuele Di Giorgi da tempo, da fiere del fumetto di più di 15 anni fa, quando loro avevano un semplice tavolino e io ero un giovane autore del Vernacoliere. Li ho visti crescere e migliorare sempre di più, fino ad arrivare ad avere un catalogo invidiabile e soprattutto ben definito con una propria identità. Ho sempre letto molti loro volumi e non li ringrazierò mai abbastanza per avermi fatto scoprire quel capolavoro che è Rughe e, successivamente, l’intera opera di Paco Roca, autore che ammiro tantissimo.

Nonostante ciò, a loro siamo arrivati su consiglio di Francesco Artibani, che stava lavorando a Monster Allergy e che ce ne aveva parlato molto bene. Li abbiamo contattati e sinceramente ci siamo trovati immediatamente d’accordo e in sintonia.

Nelle tue opere passate hanno sempre trovato grande spazio l’umorismo e l’ironia, seppur feroci. Don Zauker è il risultato più palese in tal senso. In Kraken spesso questo si trasforma in qualcosa di sferzante e crudele, più nero. In generale, a cosa è dovuta questa tua inclinazione?

Tutto questo è il risultato di esser nato e cresciuto a Livorno. Livorno è una città che non ti perdona niente, che non ti prende mai sul serio e che non permette mai che tu possa sederti sugli allori. Livorno, a differenza delle altre città toscane, non ha una storia medievale o rinascimentale importante, della quale pavoneggiarsi. Livorno era un villaggio di pescatori ripopolato grazie alle “leggi livornine” emanate da Ferdinando de’ Medici, che garantivano asilo e protezione a perseguitati politici o per motivi religiosi, che decidessero di stabilirsi a Livorno. Per rendere invitante la cosa erano state “ingaggiate” anche numerosissime prostitute che animavano i bordelli sul porto. Ecco perché a Livorno diciamo di essere tutti un po’ figli di puttana.

Per questo motivo i livornesi si sono sempre sentiti in soggezione, in mezzo alle altre città toscane ricche di storia, tradizioni, monumenti, etc, e hanno reagito sempre sbeffeggiando e dissacrando nel vero senso della parola, chiunque, prima di tutto se stessi. A Livorno è molto difficile emergere in qualche campo ed è impossibile farsi prendere la testa, perché la città ti riporta immediatamente con i piedi per terra. Infatti quelli che hanno avuto successo riconosciuto a livello nazionale, ma anche mondiale (Modigliani, per esempio) sono dovuti andar via. Quelli rimasti non sono mai veramente diventati personaggi di grandissimo successo, al di là dei meriti e delle capacità, forse superiori ad altri.

Pagato il giusto tributo alle mie origini, io sono cresciuto adorando la commedia all’italiana, quella che in verità nascondeva una certa disillusione ed un fondo di tristezza, se non di tragedia. Ho nutrito (e nutro ancora) un’ammirazione sconfinata per Mario Monicelli, Dino Risi, Ettore Scola, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Ugo Tognazzi e Paolo Villaggio, che ritengo essere stato uno dei più grandi intellettuali italiani del 900, ai tempi in cui ha scritto i primi tre Fantozzi (sì, certo, poi lui stesso ha mandato tutto a puttane, ma questo non gli toglie alcun merito) e sicuramente uno di quelli che più hanno inciso sulla nostra società, anche solo a livello di linguaggio. Sono uno di quelli che ritiene che Amici miei sia un grande film drammatico e non una divertente commedia. Certo, si ride, ma sotto c’è una tragedia terrificante.

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Cosa puoi dirmi del tuo lavoro su Dylan Dog?

A Dylan Dog sono arrivato attraverso un percorso tortuoso. Sono stato un avido lettore dei famosi “primi 100 numeri”, ma anche dei primi 80, via… poi mi sono allontanato. Ma non perché sia d’accordo con il tormentone che i primi 100 siano i migliori in assoluto, e che si stava meglio quando si stava peggio, no. Mi sono allontanato perché amo le cose che iniziano, si sviluppano e poi arrivano ad una fine. La serialità infinita non fa per me, tutto qui. Amando il personaggio è ovvio che sognassi un giorno di arrivare a scriverlo, ma non ci ho mai veramente provato. Principalmente perché non mi sentivo pronto. Dylan è un personaggio troppo importante, nel panorama fumettistico italiano (e importante lo era stato anche per me) per affrontarlo a cuore leggero.

In questo ha contribuito l’amicizia e la stima reciproca con Roberto Recchioni. Quando Roberto ha iniziato a scrivere Dylan, aveva chiesto anche a me di provare a mandare qualcosa, ma anche in quell’occasione ho rinunciato. Non so, non credevo che le storie che mi sarebbe piaciuto raccontare, il modo in cui mi sarebbe piaciuto approcciarmi all’indagatore dell’incubo, potessero andare a genio alla precedente gestione del personaggio. Io poi non so vendermi bene e non so insistere. Ad un no o ad un sì non troppo convinto, avrei immediatamente abbandonato tutto.

Diverso è stato quando Roberto è diventato il curatore della testata. Ho aspettato un po’ per non essere uno dei tanti che sarebbero corsi a baciare la terra dove cammina, in cerca di visibilità o possibilità, e poi gli ho chiesto se potevo mandargli un soggetto. L’ho mandato, Roberto mi ha dato un paio di consigli per modificarlo in modo da renderlo più adatto a Dylan e da lì ho iniziato a scrivere la sceneggiatura. Mi sono trovato subito benissimo. Con Roberto c’è una stima reciproca che dura da diversi anni, mi piace ricordare che lui fu il primo in assoluto (anche prima di me e Daniele) ad accorgersi delle potenzialità di un personaggio come Don Zauker, e di questo è giusto riconoscergliene il merito.

È una persona molto intelligente, attenta a quello che si muove intorno a sé, che sa quel che vuole e parla sempre in modo molto chiaro. I consigli e i suggerimenti che mi ha dato durante la stesura della sceneggiatura sono stati tutti migliorativi e ben accetti. Magari possiamo non essere d’accordo su tutto (come è giusto che sia, con chiunque) ma parliamo lo stesso linguaggio e questo è molto importante. Per cui, sì, scriverò altri Dylan Dog.

Qualche curiosità in chiusura: cosa pensi del lavoro di Bruno su Lupo Alberto, e cosa in Kraken del suo stile e della sua visione ti ha particolarmente colpito? C’è poi qualche sua tavola che indicheresti come tua favorita?

Io ho sempre amato Lupo Alberto, sempre. E non riuscivo (come non riesco tutt’ora) a capire come mai non fosse adeguatamente celebrato nel cosiddetto “fumettomondo”. Ne ho parlato anche qualche sera fa con Silver, davvero non riesco a farmene una ragione. Su Lupo Alberto ho letto strisce divertentissime, ma anche storie complicate con diversi livelli di lettura, che altre testate se le sognano. Quindi, sì, sapevo che Bruno era bravissimo ed estremamente versatile, però sinceramente non pensavo che potesse arrivare fino al punto in cui è arrivato per Kraken.

Però, già durante l’inchiostrazione di Nirvana e successivamente, durante la fase di scelta di uno stile per Kraken, Bruno mi aveva fatto capire di aver una gran voglia di evadere dalla gabbia di Lupo Alberto, di sperimentare, di dare tutto se stesso. Ed io, da stronzo, me ne sono approfittato, spingendolo a disegnare delle scene, a mio avviso, meravigliose. Le mie preferite, senza fare spoiler? La prima pagina, pagina 21, pagina28; 37; 40; 42; 47; 48; 52; 53; 54; 55… tante, insomma.

Hai avuto modo di leggere Il porto proibito di Teresa Radice e Stefano Turconi?

No, non ho letto Il porto proibito. Ne no sentito parlare un gran bene da più o meno tutti quelli che conosco, ma non l’ho voluto leggere per evitare di restarne in qualche modo influenzato o di dover sentire il peso di un possibile confronto. Una volta uscito Kraken è stato il primo volume che ho recuperato allo stand Bao Publishing, a Lucca Comics. Ma ancora devo iniziare a leggerlo.

Kraken si apre con qualche citazione in salsa marinaresca, per cui: ti diletti anche sul versante naturalista e documentarista, leggi saggi o ti piace seguire in qualche modo quell’ambito divulgativo?

Sì, mi piacciono molto i documentari, non solo sul mare, ma sulla natura in generale, soprattutto quelli della BBC o della televisione francese, che seguo però quando mi capita. Non sono un fanatico. Sono però andato in Madagascar per seguire le balene durante i loro spostamenti stagionali e ne sono rimasto impressionato. Ecco, anche da quell’esperienza è nata la voglia di raccontare una storia che parlasse di mostri marini.

Una cosa simile l’ho fatta quando ho girato le Isole Galàpagos, altro paradiso naturale sempre più a rischio. Ho fatto anche diversi altri viaggi, nelle foreste pluviali o safari in tenda, per vivere a contatto con la natura e gli animali, per quanto possibile ad un turista, che è quello che poi sono (è sempre bene tenerlo presente, siamo sempre turisti, finché non decidiamo di emigrare). Le citazioni in apertura di fumetto le ho però prese da internet, cercando notizie riguardanti il mito del Kraken. Inserita in un giusto contesto e sostiyuendo qualche termine con altri più seducenti ed evocativi, anche una citazione di wikipedia diventa affascinante.

Qual è il tuo rapporto, pratico ma anche di cuore e pancia, col mare?

Non credo che riuscirei a vivere in un posto lontano dal mare. E dico davvero. Quando me lo chiedono, dico sempre di avere le branchie: quando mi allontano troppo o per troppo tempo, inizia a mancarmi l’aria e mi sento opprimere.

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