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FocusIntervisteIl Sadboi Berliac: «Non sono influenzato dal manga, faccio manga»

Il Sadboi Berliac: «Non sono influenzato dal manga, faccio manga»

Il fumettista di origini argentine Berliac è l’autore del graphic novel Sadbøi, tradotto in Italia da Canicola Edizioni che in occasione del festival Bilbolbul ha organizzato la conversazione che segue. Nel 2013 sempre in occasione di BilBOlbul avevamo avuto modo di ammirare una mostra personale dell’autore presso Ram Hotel.

Berliac è uno dei massimi esponenti di quel filone di fumetto occidentale dalle forti influenze nipponiche, ma ha lavorato in precedenza usando uno stile più legato alla tradizione autoriale Argentina, il paese dal quale proviene. Qual è stata la tua formazione artistica prima di abbracciare lo stile del fumetto giapponese che ora ti contraddistingue?

Come tanti altri ragazzi della mia generazione quando ero un bambino leggevo molti fumetti. Di recente sono tornato in Argentina dalla mia famiglia e ho riaperto una piccola cassetta che conteneva i miei fumetti, tra cui molti manga. Dopo l’adolescenza, inizio ad allontanarmi dai fumetti: infatti a 17-18 anni, smetto quasi completamente di fare fumetti e inizio a fare musica. A 19 anni mi trasferisco a Barcellona per sei anni e qui scopro la pittura. Nel 2008 torno in Argentina, quindi circondato di nuovo dai miei amici fumettisti, ricomincio a fare fumetti, forte dell’influenza data dalla pittura. Uso elementi tipici della pittura e del fumetto argentino, come il bianco e nero e il contrasto, e scopro nuovi stimoli nei lavori più plastici e pittorici di Stefano Ricci, Andrea Bruno e di tutta la “scuola bolognese”.

Poi c’è stata la mostra organizzata qui a Ram Hotel a Bologna nel 2013 sul libro Playground, un “documentario” sulla prima opera del regista John Cassavetes, che si poneva come un percorso parallelo al libro che stavo disegnando. Il materiale di quella mostra è in seguito confluito nel libro in produzione. Un progetto che è una sorta di manifesto su come fare i fumetti, o meglio su come io intendo il fumetto. Dopo l’uscita di Playground mi sono un po’ perso, non sapevo come continuare il mio lavoro e ho pensato di ritornare al punto zero, al punto originale da cui ero partito, cioè il manga.

Leggi le prime pagine di Sadbøi

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Ed è lì che inizia la tua transizione che ha generato un certo “scalpore”.

Sì, c’è stata una sorta di cambio di genere; o meglio, un ritorno al passato.

Forse passando anche dal percorso che c’è stato in mezzo, cercando di far avvicinare elementi distanti della tua formazione.

La parola “transizione” denota una persona in transito, no? Ed è un processo che non finisce mai. Se non sei giapponese, se non provieni da quella cultura, questo è un viaggio continuo e mai concluso. In questo senso, è stata una transizione.

E questo è quello che succede a tutti gli autori occidentali che si avvicinano al manga. O perlomeno, tu credi che sia un percorso obbligato? E Sadbøi è il risultato di questo processo?

Sì, sicuramente. Mi sono riavvicinato al manga nel 2015, scrivendo storie brevi raccolte poi in un volume unico, Desolation, pubblicato in Finlandia, Spagna e Argentina. In quella fase ero ancora molto indeciso. Queste prime prove sono poi confluite in Sadbøi che, se vogliamo, è un’opera più completa. Credo comunque che l’istinto di tornare alla propria voce passata e originaria, sia un processo che non si esaurisce mai.

Sadbøi è la storia di un giovane migrante che diventa il ragazzino simbolo del programma di integrazione sociale della capitale del nord Europa dov’è ambientata la storia. Tuttavia questo programma d’integrazione sociale fallisce perché Sadbøi non si sente accettato dalla comunità e diventa un piccolo criminale. Dopo essere stato accusato e incarcerato, cerca il riscatto attraverso una grande messa in scena che ha a che fare con un grande evento artistico…

Il racconto inizia con questa considerazione: può il crimine essere arte? Il libro è dedicato alla memoria di Jean Genet, fautore della valutazione del crimine attraverso la bellezza dell’atto criminoso. Perché hai scelto un contenitore così complesso per spiegare cos’è per te l’arte, per cercare di definire fino a che punto l’arte può essere morale quando cessa di esserlo. Anche perché Sadbøi racchiude dentro di sé altre tematiche di grande attualità, come l’immigrazione e l’integrazione sociale, ma è centrale il concetto di arte.

La preoccupazione principale del libro sta nel come sincronizzare l’identità di una persona con il suo modo di esprimersi, cioè come far coincidere l’identità con quello che poi è la rappresentazione. Si parla dei pericoli che ci sono in questo triangolo, composto dall’identità, dall’opera e dall’espressione, cioè il veicolo tramite cui si arriva all’opera. E il libro tratta di tutto il materiale che è idealmente contenuto da questo triangolo. La vicenda dedica molta attenzione a quelle che sono le forze esterne che minacciano l’equilibrio di base.

Il libro è un manifesto contro ogni politica sull’identità. Tutto può accadere. Per esempio io non sono omosessuale ma può capitare che domani vada a una festa, mi piace un ragazzo e vado a letto con lui senza problemi… Sono contro questo tipo di approccio restrittivo all’identità e alla politica, soprattutto… È interessante come Sadbøi incontri i suoi due amici in carcere: molta letteratura ci riporta sempre l’idea del sesso violento in carcere… invece si può trovare l’amore in carcere, perché no? Io l’ho trovato in Norvegia.

Quando parli di queste forze esterne, io credo di aver individuato una di queste, cioè l’opinione pubblica che è rappresentata come un costante voice off radiofonico, molti schermi televisivi accesi che trasmettono notizie su Sadbøi. C’è molta attenzione ai media tanto da trasformarli quasi in un personaggio all’interno della vicenda.

Sì, nel senso che se sei un immigrato come me, questa è una musica costante. Il libro è la mia personale versione di Akira, abbiamo un ragazzo giovane con un grande potenziale, con un grande potere che le istituzioni vogliono controllare. E alla fine, nel libro, le voci dei media rappresentano le istituzioni.

Nel libro le istituzioni sono rappresentate da una operatrice sociale, una figura materna che si prende cura di Sadbøi. Ci sono anche dei genitori affidatari che in un certo senso lo incoraggiano. Sembra che ci sia una critica anche al paternalismo/maternalismo occidentale.

Sì, credo che la critica mette in luce l’ipocrisia di fondo del grande slogan “refugees welcome”. Infatti l’idea che avevo per la seconda versione del libro era quella di raccontare di un rifugiato. Prima si doveva chiamare “Arancia rossa” che in norvegese significa letteralmente “Arancia di sangue”; però si tratta della prima versione, che doveva essere una biografia di Jean Genet.

Poi quando ho provato a pensare a un nuovo personaggio, un rifugiato, ho cambiato anche il titolo. Questo cambiamento nel progetto c’è stato anche perché a Berlino parlavo molto con rifugiati e attivisti, subito si è instaurato un nuovo triangolo: l’esperienza del rifugiato, l’esperienza di Jean Genet negli anni Quaranta e anche la mia, in quanto immigrato in Europa.

Mi domando spesso fino a che punto l’ambiente che mi circonda influisca sulle mie storie. Questa è una storia scandinava…

Leggi anche: La polemica sul gaijin manga di Berliac: opportunismo o transfobìa?
sadboi berliacNel libro, c’è questa tavola bellissima che ritrae un’ambientazione urbana e dietro il ritratto di Sadbøi, campeggia la scritta “immigrants go home”. Quindi è abbastanza chiaro che la tua percezione di quest’accoglienza sia un’altra…

Sadbøi è al centro di un fuoco incrociato e lui si muove cercando un modo per uscirne. Tornado alla questione dell’arte, essa si fa strumento per evadere da situazioni problematiche.

Però l’arte rende libero Sadbøi ed è questo il grande paradosso: usa l’arte come tentativo di liberarsi da tutte quelle categorie che gli sono state attribuite. Ma l’arte lo rende libero oppure lo incatena?

È il lettore che decide. Il libro pone più domande che risposte. Io ho qualche idea in merito ma non voglio condizionare i lettori e allo stesso tempo, non so se ti risponderei come autore del fumetto, come immigrato o come artista.

Sfogliando il tuo libro mi è sembrato che tu dia molta importanza all’ambientazione, in questo caso urbana. È curioso che a un certo punto della storia con la famiglia affidataria di Sadbøi fa una piccola escursione dove neanche la campagna sembra accettarlo…

In particolare in campagna… Tutta la costruzione sociale che permetterebbe di accettarlo, in campagna non esiste. Nonostante questo, lui non riesce a trovare il suo posto.

Pur non essendoci sovrastruttura sociale, è la natura stessa, rappresentata da dei caproni che sono l’animale simbolo dell’omologazione…

… dell’appartenenza e dell’agire come in un gruppo. Quando ho lavorato sull’ambientazione, volevo che fosse chiaro il senso di non appartenenza di Sadbøi. C’è un vero e proprio divorzio tra quello che è lo stile con cui è disegnato il libro, che appartiene alla tradizione giapponese, e l’ambientazione nord europea. E questo contrasto pone l’accento su questo senso di non appartenenza.

Uno dei personaggi del tuo libro, il manager che convince Sadbøi a riscattarsi con l’arte, gli dice “Ti do io la soluzione: nell’arte puoi fare quello che vuoi!”. Secondo te, è vero?

Dipende da chi è il tuo editore… Il personaggio magari vuol dire che quello che fai, ha un significato più vero; che non ci sono filtri tra quello che dici e quello che poi effettivamente fai, se sei un’artista. Credo voglia intendere questo, ma Sadbøi lo prende alla lettera.

Leggi anche: Sadbøi di Berliac: il gaijin manga racconta la migrazione
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E quindi agisce criminosamente.

Sadbøi è un ragazzino molto semplice, un po’ tonto.

Eppure cresce nel libro…

Sì, ma dentro, è una crescita intima, personale. E tentare di esprimere i processi individuali ed esistenziali è pericoloso perché la gente potrebbe non capire o fraintendere.

Questa mattina nell’incontro incentrato su Yoshiharu Tsuge si è parlato di un certo minimalismo che riguarda una parte della ricerca di Tsuge. Ti senti affine a questo tipo di ricerca, cioè hai semplificato il tuo tratto per realizzare Sadbøi?

La critica ripete sempre che sono “influenzato dal manga”. Io non sono influenzato dal manga, io faccio il manga. La parola influenzato credo sia xenofoba perché, se io fossi giapponese, la critica non potrebbe dirmi che sono influenzato da… Voglio fare le cose meglio, voglio imparare. Voglio mettermi in una tradizione. È tutto quello che faccio, non so fino a che punto posso dire che sia una scelta. Di questo percorso di crescita artistica sono soddisfatto del ritmo di lettura del manga, il disegno funziona perché anche la scrittura funziona. L’aspetto su cui devo lavorare ancora di più sono le onomatopee.

Del fumetto occidentale non mi manca niente. Può succedere che il libro si percepisca in un certo senso freddo e distaccato perché il linguaggio visivo del manga ha come obiettivo smettere di guardare, dando spazio alla sola lettura. Può essere che questa forma visiva di racconto abbia contribuito a questa sensazione di distacco.

Berliac
Eppure hai un modo abbastanza scherzoso di fare manga e di rendere tuoi certi aspetti della cultura grafica giapponese. Ad esempio quando Sadbøi ricorda il viaggio terribile verso il paese in cui arriva, c’è la celebre onda di Hokusai che mi sembra una citazione divertente…

Sì, lo è, ma se io avessi utilizzato un’immagine tipica dell’arrivo dei rifugiati, sarebbe stato come negare la mia posizione di immigrato. Ho scelto Hokusai perché volevo esprimere la paura del mare come minaccia e credo che La grande onda sia un’immagine archetipica in questo senso. In realtà ci sono più immagini all’intero del libro che rievocano questo concetto.

Mi sembrava un po’ scherzoso, che tu avessi scelto un’immagine presente nell’immaginario comune.

Più universale e senza targa politica. Il libro è su come diventare soggetto di discussione, quando in realtà sei oggetto di discussione. Ma come fare a diventare soggetto di discussione? Come ricevere l’ascolto dagli altri? Il finale del libro è proprio su questo: come farti ascoltare e indagare qual è il limite tra soggetto, che Sadbøi vorrebbe diventare, e oggetto delle conversazioni degli altri. Lui sta facendo, in quanto soggetto, un’opera d’arte ma che è fruita dagli altri solo osservandola. È questo il limite in cui si muove.

Quindi è un grande paradosso, è un grande inganno, la messa in scena finale: nel momento dell’esposizione lui è sia l’autore della performance ma al tempo stesso ha bisogno di un pubblico che lo osservi.

Soggetto e oggetto allo stesso tempo.

E poi c’è un’ultima tavola, che lascia il finale aperto, in cui Sadbøi non è presente ma c’è il suo nome gigante sulla vetrina infranta di una gioielleria..

È un po’ come spogliarsi da tutte le etichette che la società gli ha dato e come ultimo atto, spogliarsi proprio del nome, dell’ultima marca d’identità. È così Sadbøi diventa un concetto, più che una cosa o una persona.

Sadbøi è un “ragazzo triste” … è un libro tra l’altro pieno di citazioni.

Io non l’ho ancora capito. Ogni volta che rifletto sul finale, cambio parere e versione in merito. Tento di vedere il finale da ogni punto di vista possibile.

Leggi da attore, insomma.

Sì, in quanto autore devo farlo.

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