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ComicsLa migliore storia dei Fantastici Quattro che non ricordate

La migliore storia dei Fantastici Quattro che non ricordate

La genesi di "Marvel Knights 4", la serie dei Fantastici Quattro uscita nel 2004, che fu l'ultimo grande esperimento dedicato al gruppo, nonché una delle loro storie più riuscite (e dimenticate).

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C’è un messaggio abbastanza chiaro in quasi tutti i fumetti di supereroi ben fatti. Picchiali forte, da star male, falli sembrare tutto tranne che degli eroi, perché è nel loro punto più basso che si trova l’eroismo, che si trovano le storie migliori. Devil e Spider-Man insegnano che più il carotaggio emotivo va in profondità più il risultato sarà felice per i lettori.

Ai Fantastici Quattro è sempre andata peggio che ad altri supereroi. Oltre ai pericoli per l’umanità (Galactus, gli Skrull), nel corso degli anni hanno messo a dura prova la stabilità del gruppo anche molte tensioni esterne e interne. Amati eppure osteggiati dalla loro New York, i personaggi vedevano la felicità come un asintoto a cui tendere ma mai raggiungere. Nevrotici, ognuno con paturnie, caratteri bizzosi o conflittuali, i quattro partivano da premesse tragiche su cui però non tutti gli scrittori hanno voluto insistere con particolare sadismo.

Nei primi numeri della serie, la popolazione di New York era tutto tranne che affettuosa verso i Nostri, e i creatori Stan Lee e Jack Kirby mettevano in chiaro che i valori della Golden Age erano pura astrazione e che più il quartetto provava a farsi accettare più veniva respinto da una terra promessa arida di affetto. Ciononostante, la loro reputazione, anche in virtù del loro status di apripista dell’universo Marvel moderno, è sempre stata quella di un fumetto ottimista, pronto allo slancio in avanti, alla scoperta, all’avventura.

C’è stato però un momento che ha saputo cogliere e bilanciare tanto le istanze positive quanto la disfunzionalità del gruppo, generando una delle loro storie più sentite. Anno 2001, in casa Marvel c’è quell’aria vispa di chi ha appena aperto le finestre per far entrare un po’ di corrente. Vecchi autori che non avevano più niente da dire sono stati fatti accomodare alla porta, e voci fresche hanno preso il controllo dell’azienda con l’obiettivo di rinnovare i personaggi bandiera o di riportarli alle origini.

In questa rivoluzione, le sorti del quartetto furono affidate a Mark Waid e Mike Wieringo. Fantastic Four era la testata-barone della compagnia, la più antica ancora in attività e quella che ha dato il via all’universo Marvel così come lo conosciamo. E i Fantastici Quattro erano una property di valore, che non aveva ancora conosciuto periodi di negligenza e che si aspettava di venire adattare in un lungometraggio con protagonista George Clooney.

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Vendeva bene e le aspettative sulla performance pretendevano che si portasse a casa un risultato come minimo buono. I due autori mantennero intatte le dinamiche del passato, ma evitarono di appesantire la lettura con riferimenti alla continuity, senza per questo disdegnare incursioni nel bizzarro (la matematica che si incarna in un antagonista).

Le storie entusiasmarono i fan tanto quanto lasciarono freddi i piani alti della Marvel. L’allora vice-presidente della casa editrice Bill Jemas tentò di convincere Waid a scrivere avventure «più terra terra, con Reed che diventa un professore matto e il vicino di casa scontroso come nuovo arcinemico». Avrebbe voluto una «tragicommedia suburbana strampalata», imposizione che Waid rifiutò in blocco. L’editor in chief Joe Quesada smentì la versione di Waid ma comunicò che Jemas aveva altri piani per la testata. Waid e Wieringo furono messi fuori dai giochi.

Entrò in scena Roberto Aguirre-Sacasa, drammaturgo alle prime armi appena trasferitosi nella Grande Mela. Con madre banchiera e padre diplomatico del Nicaragua, il giovane aveva una passione smodata per i fumetti ma aveva scelto il teatro come carriera lavorativa. Fortuna volle che in Marvel stessero pescando professionalità fuori dal circolo fumettistico. «Cercavano sangue fresco da iniettare nel loro parco autori» ha raccontato Aguirre-Sacasa al Washington Post. «Romanzieri, sceneggiatori e giornalisti che fossero appassionati di fumetti». Fu seguendo questo criterio che nacquero le carriere fumettistiche di J. Michael Straczynski (autore televisivo, giornalista), Kevin Smith (regista), Orson Scott Card (romanziere) o Allan Heinberg (sceneggiatore per cinema e tv).

Aguirre-Sacasa venne notato non per qualche sua dichiarazione d’amore verso gli eroi Marvel ma per Archie’s Weird Fantasy, un esercizio di scrittura con protagonista Archie, il personaggio dell’omonima serie sui ragazzi di Riverdale. Durante un corso di scrittura tenuto dalla commediografa Paula Vogel a cui aveva preso parte, ai partecipanti era stato assegnano il compito di scrivere un copione teatrale con due cose che non sono comunemente associate tra di loro. Il giovane mischiò le atmosfere spensierate e rurali di Archie con il caso di Leopold and Loeb, due studenti universitari che avevano ucciso un ragazzino nella Chicago degli anni Venti cercando di compiere il delitto perfetto. Nel testo, Archie faceva coming out e si trasferiva a New York, incontrando i due assassini.

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Il risultato gli fece ottenere una lettera di diffida dagli avvocati della Archie Comics. Aguirre-Sacasa colse l’occasione e rispose che gli sarebbe piaciuto lavorare per loro (una decina d’anni più tardi sarebbe diventato il loro direttore creativo e avrebbe contribuito al rinnovamento del franchising). Il testo andò comunque in scena con i nomi dei personaggi cambiati.

La Marvel si accorse del calembour narrativo e lo assoldò per scrivere una miniserie di dodici numeri intitolata FF: Working Class Heroes. Quando però Waid lasciò il posto vacante, Jemas e Quesada pensarono di trasferire la miniserie e il suo autore sulla testata del quartetto.

Tuttavia, in uno dei primi esempi riusciti di proteste del fandom internettiano, i lettori intasarano i forum di Newsrama e Comic Book Resources con messaggi di disapprovazione per il licenziamento di Waid. Tornando sui propri passi, i due ridiedero le chiavi della serie in mano a Waid, e Aguirre-Sacasa fu dirottato su una nuova serie, intitolata Marvel Knights 4, parte della linea Cavalieri Marvel, creata apposta per raccontare l’aspetto più mondano, adulto e meno supereroico del fumetto.

Facendosi ispirare da La fine dei Fantastici Quattro! (Fantastic Four #9), in cui il quartetto si trovava senza fondi e Namor ne approfittava per tendere loro una trappola, Aguirre-Sacasa tolse il tappeto da sotto i piedi dei FQ: nel primo arco narrativo, Un lupo alla porta, i personaggi furono costretti a trovarsi lavori normali per sbarcare il lunario, dopo essere finiti sul lastrico a causa di un raggiro proprio contabile.

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Ben Grimm si mette subito di buona lena e trova un posto come operaio, Sue Storm va a fare l’insegnante, Johnny, dopo aver tentato la strada del cinema, ripiega sui vigili del fuoco. Reed trova un lavoro d’ufficio ma non si dà pace, vorrebbe trovare la soluzione a tutti i problemi della famiglia ma si dimentica perfino di andare a prendere il figlio a casa. C’è l’umorismo della disperazione, un senso fortissimo di precarietà e nessun supercattivo all’orizzonte da poter riempire di botte.

Nei redazionali della prima edizione italiana, l’editor di Panini Comics Francesco Meo raccontava l’ira dei lettori, arrabbiati per il trattamento riservato ai loro eroi. In effetti, un lettore militante doveva aver provato un forte senso di spaesamento leggendo Lupi alla porta, una saga in cui non viene tirato nemmeno un pugno, o una storia fanta-horror come The Pine Barrens. Nessuna altra serie stava rischiando così tanto, e solo molti anni dopo si è tentato un approccio ancora più hipster con Occhio di Falco. Un azzardo reale per un titolo che aveva come strillone “The World’s Greatest Comics Magazine”.

Pescando dalle proprie, precarie, esperienze autobiografiche, Aguirre-Sacasa mise in scena il disfacimento di una famiglia, arrivando a livelli di inquietudine (esistenziale o d’atmosfera) inediti per il franchise. Parte delle atmosfere di quel ciclo erano debitrici anche dei testi teatrali di Aguirre-Sacasa. Nel 2001 aveva scritto Muckle Man, una pièce che piegava l’elaborazione del lutto di due genitori il cui figlio è annegato in derive da thriller sci-fi (l’arrivo di un uomo emerso dal mare, l’ossessione del padre per i calamari giganti).

I testi di Aguirre-Sacasa erano conditi dai disegni di Steve McNiven, sul punto di esplodere con Civil War e altri lavori. Qui, il canadese era ancora lontano dal segno raffinato che avrebbe saputo coltivare in opere future, ma mostrava comunque una predisposizione per le scene d’azione, le espressioni facciali e l’esaltazione blockbusteriana di ogni momento.

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Pur piene di premesse stiracchiate, le sceneggiature mediavano tra l’introspezione e un occasionale gusto cazzaro alla Mark Millar. In The Pine Barrens, un racconto che ibrida le ambientazioni da horror folkloristico (una foresta in cui scorre un fiume rosso sangue) con la fantascienza, Reed e gli amici del figlio sono intrappolati in una nave aliena. Reed rassicura i ragazzi elencando tutti i passaggi che avrebbero portato la Cosa e Sue a liberarli.

La sequenza si conclude come Reed aveva previsto e con i ragazzi che gli chiedono come abbia fatto a prevedere tutto quanto. Mr. Fantastic cita allora un titolo di giornale che lo declamava «una delle menti più brillanti nella storia umana» e poi sigilla la pagina con uno smargiasso «Believe the hype» (reso in italiano con un più tiepido «è vero», ma l’internet non aveva ancora sdoganato il termine).

Dove Aguirre-Sacasa fallisce è nell’incapacità di proseguire il discorso. Per l’accoglienza tiepida dei lettori o la ritrosia degli editor a imboccare quella strada, l’autore fu riportato subito all’interno dei confini tipici, rendendo la sua idea un episodio una tantum. Marvel Knights 4 divenne una serie come tante, e i Fantastici Quattro terminarono il loro flirt con progetti autoriali (oltre a questo, in quegli anni c’erano stati 1234 di Grant Morrison e Jae Lee e Molecole instabili di James Sturm e Guy Davis). Ma quella manciata di storie dimostrò che oltre all’avventura, all’azione, all’ottimismo, i Fantastici Quattro potevano raccontare anche storie di disperazione, apatia e dolore.

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