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RecensioniClassicX-Statix: i supereroi nell'era della mediocrità

X-Statix: i supereroi nell’era della mediocrità

Prima con "X-Force" e poi il suo seguito "X-Statix", pubblicate da Marvel Comics tra il 2001 e il 2004, Peter Milligan e Mike Allred aggiornarono il mito del supereroe alla mediocrità dei nostri tempi.

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Provate a chiedere a qualche fan di elencare i migliori cicli di storie Marvel di sempre. Ancora prima di ascoltare la risposta non sarà difficile fare una rapida previsione sui nomi che tireranno fuori. Limitandosi a un’epoca relativamente moderna ci saranno sicuramente gli X-Men di Chris Claremont, il Daredevil di Frank Miller, il Thor di Walter Simonson, i Fantastici Quattro di Jonathan Hickman, i New X-Men di Grant Morrison, il Punitore di Garth Ennis e così via.

Si tratta di opere importanti, in grado di segnare profondamente i personaggi coinvolti e di influenzarne le carriere editoriali. Anche se non avete mai letto una singola pagina di queste storie è facile che comunque le conosciate, tanto se ne è scritto e parlato. Sarebbe bene conoscerle anche solo per godere appieno del potenziale quasi illimitato del fumetto popolare e cercare di capire perché ne sono diventati pilastri. Questo vale per tutti gli esempi citati sopra e un pugno di altri capolavori.

E poi c’è X-Statix di Peter Milligan e Mike Allred. Una delle gestioni più lunghe, assurde e fuori registro che Marvel Comics abbia mai dato alle stampe. E che forse viene citata troppo poco per il suo reale valore, non certo privo di ombre ma perfetto nell’inquadrare in maniera glaciale il suo tempo.

Da 2000 AD a X-Force

Come tutti gli scrittori inglesi della sua generazione Peter Milligan iniziò la sua carriera scrivendo su 2000 AD. Dopo qualche breve storia di rodaggio ottenne una sua serie regolare e i primi successi. Bad Company era uno spin-off dell’universo di Judge Dredd ambientato in una colonia penale su Titano. Si trattava di una sorta di sporca dozzina in chiave fanta-bellica, perfettamente calata nell’estetica del magazine che la ospitava.

La popolarità del fumetto fu tale che Milligan continuò a creare nuove property, guadagnando sempre più luce sotto i riflettori. Proprio in quegli anni si stava consumando la british invasion del fumetto USA, e le case editrici statunitensi erano più attente che mai a non lasciarsi sfuggire nessuna voce proveniente dalla Terra d’Albione. Prevedibilmente la telefonata arrivò anche per il Nostro, che nel 1989 esordì per DC Comics con una miniserie di sei numeri.

Skreemer era disegnata da Brett Ewins e Steve Dillon ed era una sorta di gangster movie ambientato in una New York post-apocalittica. Il titolo non vendette bene, ma fu comunque sufficiente per far rizzare le antenne alla leggendaria Karen Berger. Quando la editor chiese a Milligan che cosa vorrebbe scrivere, questi rispose tirando fuori dal dimenticatoio un misconosciuto personaggio creato da Steve Dikto nel 1977: Shade l’Uomo Cangiante. Si trattava di un agente speciale in fuga dalla sua dimensione alla ricerca di prove che riuscissero a scagionarlo dalle accuse che pendevano su di lui.

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A conti fatti una serie strana, forse troppo, dalla esigua vita editoriale di soli otto numeri. Milligan ne prese solo lo scheletro e la stravolse completamente, trovando il suo posticino nel filone revisionista in gran voga in quegli anni. Il risultato fu un fumetto politico e psichedelico, deciso a rivoltare come un calzino il gotha delle icone statunitesi infilandosi direttamente nella psiche del popolo americano. Nonostante le premesse non proprio popolari, si trattò di un autentico successo che durerò ben settanta numeri, di cui quasi la metà pubblicati sotto l’appena nata etichetta Vertigo.

Ormai quello dello scrittore inglese era un nome che scottava, così Milligan finì a scrivere l’Animal Man post-Grant Morrison, Batman, un paio di altre serie per l’etichetta adulta di casa DC e infine Elektra per la Marvel. Un paio di anni dopo, nel disperato tentativo di rilanciare tutta la grande M, il nuovo editor-in-chief Joe Quesada pensò di affidargli X-Force. Un titolo tutto azione e pistoloni, lontanissimo dalla sua scrittura stratificata e cervellotica.

Il creatore di Madman

Per trovare l’altro grande attore coinvolto nella vicenda dobbiamo spostarci agli antipodi del londinese. Per capire appieno Mike Allred basta ricordarsi la sua prima, gloriosa apparizione cinematografica. Lui era quello che – dopo aver concesso le sue matite per i titoli di testa – apriva In cerca di Amy di Kevin Smith interpretando se stesso al Manhattan Comicon e uscendosene con la mitica battuta «I love Chow Yun-Fat, but I don’t think he’d be right to play Madman».

Difficile immaginarsi qualcuno di più radicato negli anni Novanta di così. In quel periodo Allred era un’autentica celebrità del mondo indie. Dopo essere stato speaker radiofonico e giornalista televisivo, nel 1992 il fumettista dell’Oregon diede vita al suo personaggio più iconico, Madman. Il suo era uno stile coloratissimo, iper-pop, legato a tutto l’immaginario statunitense delle decadi passate.

Grazie alla presa immediata del suo stile grafico, alla sua narrazione leggera, fortemente costruita attorno all’umanità dei personaggi e al gusto postmoderno delle trame, Madman passò ben presto da Tundra Comics a Dark Horse, dove iniziò a fare incetta di premi e a diventare una delle figure più di spicco di tutta l’industria del fumetto.

La grandi case editrici continuavano ad affidargli numeri singoli, mentre lui preferiva dedicarsi ai suoi progetti personali come il notevole Red Rocket 7. Questo fino a quando ricevette la fatidica chiamata di Quesada. L’idea era quella di mettersi a lavorare con uno sceneggiatore con cui non aveva nulla in comune per il ciclo di storie più lungo di tutta la sua vita. Cosa sarebbe potuto andare storto?

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Una nuova X-Force

Il titolo prescelto per mettere al lavoro la strana copia era uno dei simboli del collasso dell’editoria statunitense alla fine del millennio. X-Force era nato nel 1991 come capriccio personale dell’iperattivo Rob Liefeld, all’epoca uno dei disegnatori di punta del mercato dei comics.

La serie era una versione grim & gritty degli X-Men, e il debutto aveva piazzato qualcosa come 5 milioni di copie. Dentro c’era azione a palate, estetica paramilitare, trame ridotte al minimo, corpi innaturali e un tratto che si fece via via più secco ed estremo, allontanandosi sempre più da quello che era stato.

Tenente conto che prima di questo mega-successo le testate mutanti della Marvel avevano scalato le vette delle classifiche di vendita puntando sulle complessissime mitologie di Claremont. Uno che più di mazzate e fucili dai calibri impossibili preferiva parlare dei tormenti interiori dei suoi personaggi.

In un colpo solo tutto si era ribaltato, in una maniera che avrebbe dato i suoi frutti più maturi da lì a qualche anno con l’esordio della Image Comics. Un bengodi che sarebbe durato più di quello che i pessimisti avrebbero sperato, ma non abbastanza per evitare un tracollo delle vendite alla fine del decennio.

In una Marvel praticamente alla canna del gas si decise il tutto per tutto investendo su talenti come David W. Mack, Mike Oeming, Brian Michael Bendis, Garth Ennis, Steve Dillon, Mark Millar, Grant Morrison e Frank Quitely e portando il responsabile della linea Cavalieri Marvel Quesada a occupare la poltrona di editor-in-chief lasciata libera da Bob Harras. Come avrete capito, in quella impressionante lista di nomi c’erano anche quelli di Milligan e Allred, che capirono al volo che aria tirasse e diedero vita a uno dei titoli più impossibili e caustici della storia della Marvel.

Buttando al vento decenni di supereroi e superproblemi, la nuova linea guida della testata mutante era dettata unicamente dai tempi che correvano. I nuovi campioni della giustizia erano i protagonisti di un reality sulla falsa riga del popolarissimo – all’epoca – The Real World. Oltre a combattere i cattivi a favore di camera, gestivano i product placement, vendevano i diritti della loro immagine, tiravano avanti a psicofarmaci e, soprattutto, morivano spesso. Ma per lo share si fa di tutto, no?

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Satira sociale

La nuova X-Force era tanto satira sociale quanto presa in giro dei meccanismi tipici del fumetto seriale statunitense, giocando con la metatestualità in maniera molto più intelligente e subdola di quanto abbia mai fatto un Deadpool qualsiasi. Quando gli elementi originali della formazione mutante di Liefeld e Nicieza andarono a reclamare il loro titolo, pareva di trovarsi in mezzo a un incontro tra avvocati, rispetto alla buona, vecchia scazzottata che ci si aspettava.

La teleporta U-Go Girl fu forse la più esplicita, quando se ne uscì con un «Guarda, Cannonball, che ve l’avevamo detto. Se per voi il titolo è così importante avreste dovuto registrarlo».

Quando, dopo qualche numero, la serie risultava ancora piuttosto chiusa su se stessa, fu lo stesso Orfano – leader della squadra – a mettere a fuoco la cosa affermando: «Uno dei problemi di questa X-Force è che sembra non esserci un vero cattivo». Come se si trattasse di un reclamo da writers’ room di qualche serie televisiva. E forse non ci siamo neanche troppo lontano.

Quando il produttore dello show televisivo, un miliardario della silicon valley, spiegò ai vari membri della squadra come guadagnarsi il loro spazio, ne distrusse le identità e le appiattì attorno a comodi stereotipi. C’erano: «Guy: il ragazzo sensibile della porta accanto. Edie: l’ambiziosa provocatrice. Tike: l’incazzoso ragazzo nero che fa cagare sotto la classe media». A questi si aggiunsero il maledetto con alle spalle una famiglia disfunzionale – anche se in realtà i suoi genitori erano amorevoli e non gli mancava nulla –, il gay militante, e così via. Praticamente il casting di un qualsiasi reality show o le linee base per la formazione di una boy-band.

Ma il meglio lo si aveva quando la ferocia satirica e il gioco metalinguistico viaggiavano alla stessa velocità. In uno dei cicli narrativi più interessanti vediamo Anarchico essere piuttosto preoccupato per le audizioni di Spike, afroamericano come lui. Quello che all’inizio sembra un semplice rimbrotto di gelosia da primedonne in vista del nuovo ingresso in squadra lascia però ben presto spazio a una verità molto più cruda. Incalzato dai suoi colleghi l’Anarchico sfodera una delle battute più pesanti di tutta la serie: «Certo che sono paranoico. Per quanto tempo pensi che vorrebbero due fratelli nella stessa squadra? Questo non è basket!». Sembra una spacconata da nulla, ma tra quelle righe fredde come il ghiaccio c’è molta roba.

Si deridevano senza pietà meccanismi narrativi noti a tutti e al contempo si poneva l’accento su come i problemi della società si vedessero anche in particolari insignificanti. Tutti siamo passati dalla prima stagione dei Power Rangers, quella in cui il tizio afroamericano aveva la tuta nera, l’asiatica la gialla e la ragazza caucasica la rosa. Tanto per non farsi mancare nulla e tracciare una bella riga tra un compartimento stagno e l’altro.

Qui il discorso veniva approfondito ulteriormente parlando dell’infanzia dell’Anarchico presso una famiglia wasp, cosa che gli aveva fatto perdere la credibilità della sua comunità senza essere comunque completamente integrato nell’ambiente in cui era cresciuto. Il soprannome che gli avevano affibbiatoo – Noce di cocco: nero fuori, bianco dentro – anticipò di quasi vent’anni il celebrato horror Get Out, sfruttando oltretutto lo stesso registro grottesco.

La nascita di X-Statix

La serie piaceva, ma non vendeva molto. La pressione dei lettori di vecchia data si fece sentire e costrinse la casa editrice a un cambio di nome. L’ultimo numero di X-Force fu il 129, dopodiché si passò a X-Statix. Un moniker stupido oltremisura, anche se in fondo «chi se ne frega di che cosa significhi, l’importante è che suoni bene» (dalle parole del mutante Phat).

Il primo obiettivo di questo nuovo corso a essere messo alla berlina furono proprio i lettori, descritti come asociali ossessionati dalle loro futili passioni. Milligan perse ogni inibizione e infilò una trovata più provocatoria dell’altra. Si arrivò a pensare di inserire la principessa Diana come mutante tornata dalla morte, ma l’idea viene intercettata dalla stampa scandalistica, arrivando persino sulle pagine di giornali come il Guardian.

La bufera che si stava sollevando attorno all’argomento costringe la Marvel a tornare sui propri passi e non se ne fece nulla. Lo spirito della serie comunque non cambiò di una virgola. I primi arcinemici degli X-Statix furono la O-Force, ma si trattò solo di una rivalità in fatto di ascolti televisivi, visto che anche loro combattevano i super-criminali. «Qual’è il nostro scopo? Se non utilizziamo quello siamo per fare del bene… che cosa possiamo farne?» chiede un disperato Mister Sensibile all’Anarchico. «Intrattenere!» è la raggiante risposta. Roba da rimanerci male.

Poco dopo, però, ci venne ricordato che il mondo di X-Statix era un luogo dove gli avvocati sfoggiavano ali da pipistrello come se nulla fosse. Inutile stare a discutere di eroismi o grandi responsabilità. Soprattutto quando in giro c’era un tizio come Doop, mascotte della squadra che con il passare dei numeri passò da comic relief a freddo assassino fino ad arma di distruzione di massa.

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L’apporto di Allred

E Allred, che ruolo aveva all’interno di un progetto così caustico e lontano dai suoi soliti lidi? Senza mezzi termini, il tutto non avrebbe avuto senso di esistere senza le sue matite. Il suo immaginario, così legato a decadi impregnate in un ottimismo sfrenato nella grande macchina capitalistica statunitense, era perfetto per descriverne la decadenza.

X-Statix era violento – molto, a tratti – e le bassezze si sprecavano, ma le tavole di Allred non si distaccavano mai una virgola dal suo universo pop fatto di tinte piatte e grossi contorni neri. Sfogliare i volumi di questa serie è un’autentica gioia per gli occhi, e lo stesso disegnatore è più tornato su quei livelli.

La discrepanza tra come appariva – gioioso, colorato, sfavillante – e come era in realtà faceva di questo fumetto un qualcosa di unico e inimitabile. Milligan se ne rese conto e costruì interi personaggi intorno al tratto di Allred. Dal protagonista Guy Smith alla bellissima Venus Dee Milo, graficamente il capolavoro della serie.

Le pagine erano piene, i colori esplosivi – merito della enorme Laura Allred, moglie di Mike –, la regia sempre frizzante e dinamica. Pensate a una specie di Happy Days diretto da Paul Verhoeven con in testa le tele di Roy Lichtenstein e andrete vicino a cosa è riuscito a fare Allred.

Per tutta la lunghezza della run non si segnalarono grandi finezze narrative, ma ogni pagina era studiata per essere il più impattante possibile. Non c’erano spazi vuoti, i corpi erano ammassati e i fondali si concedevano spesso alla psichedelia.

Se Milligan a tratti si perdeva nei suoi dialoghi e nei sottotesti politici a sfavore di una costruzione di genere realmente appassionante, Allred non si scordava neppure per un attimo che cosa stesse disegnando. Un grande fumetto imbevuto di cultura popolare. Uno di quelli che deve costringerti a girare pagina per forza di cose. Così Allred lasciò il lato cerebrale al suo compare e si prese sulle spalle il compito di non mollare mai, neppure per un secondo, il lettore.

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Azione senza freni

Portando avanti l’esempio della X-Force originale, anche su queste pagine l’azione era fragorosa ed esagerata, con un sacco di corpi che volavano, pugni, calci e raggi di energia. Proprio come in quegli albi che i due autori stanno provando a distruggere. A fargli da spalla alla tavola da disegno un gruppo di straordinari comprimari, tutti perfettamente in linea con lo spirito guida della serie. Darwyn Cooke era semplicemente il gigante che tutti abbiamo imparato ad amare fin dal primo momento che i nostri occhi si sono posati sulle sue tavole, e con Paul Pope e Sean Phillips le cose non andarono troppo diversamente. Il tutto per oltre 1.200 pagine complessive.

X-Statix non fu una run perfetta. Se, come critica a 360 gradi del mondo che la circondava aveva la precisione e il potere distruttivo di un laser, dal punto di vista narrativo – costruzione e svolgimento dei plot – spesso era ridondante e fuori fuoco. Riuscì comunque nel miracolo di dimostrarsi empatica con i suoi personaggi, scavando spesso nel loro passato in maniera delicata e sorprendente. Peccato che questi cadessero come mosche, muovendosi sul filo del rasoio in un universo fatto solo accordi commerciali e diritti televisivi. Non c’era spazio per grandi avventure, battaglie epiche o viaggi in un universi impossibili.

Milligan e Allred hanno aggiornato il mito del supereroe alla mediocrità dei nostri tempi. Una volta il mito dell’eroe dalla faccia comune – Peter Parker, per intenderci – era qualcosa di grandioso, ora trasmette solo tristezza. Fateci caso: Superman e Batman sono nati nell’epoca in cui le star erano qualcosa di semidivino, la X-Statix nell’anno in cui è stata trasmessa la prima serie di Celebrity Big Brother. Inutile aggiungere qualcosa di più.

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