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“Nel bosco del nostro splendore”: il ritorno alla natura primordiale di Ciro Fanelli

Sfogliando per la prima volta Nel bosco del nostro splendore, il nuovo libro di Ciro Fanelli edito dai tipi della Rizzoli Lizard, una domanda ha preso a frullarmi in testa. Perché un autore avvezzo al fumetto dovrebbe sentire l’urgenza di raccontare se stesso attraverso un romanzo illustrato e non attraverso un fumetto? Visto che quanto quest’ultimo è mezzo forse prediletto (se non abusato) per veicolare l’autobiografismo.

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La risposta potrebbe sembrare lapalissiana, ma nel contempo non così scontata. Credo e suppongo – in questo forse Fanelli un giorno mi aiuterà a stornare i dubbi – perché l’autobiografismo a fumetti è diventato negli anni un fenomeno deteriore, ormai codificato e poco incline alla sincerità. La vita, racchiusa nelle gabbie di un fumetto, rischia – per i troppi modelli che hanno sedimentato un cliché abbastanza rabbonito ed esausto – di essere estetizzata: forse la parola, senza orpelli e belletti, senza acquerelli o incursioni, ammicca di più al lettore di turno, può arrivare al nocciolo, mostrare meno, toccare l’essenziale in certe situazioni. Soprattutto, laddove alla base c’è una crisi, anche di quel segno, di quell’insieme di segni che concorrono a costruire quei sistemi di diagrammi che noi chiamiamo fumetti.

Quarantenne, in fuga da Bruxelles verso un posto imprecisato nelle Marche dove ci sono colline che aspirano allo statuto di montagne (ma che in realtà non possono ambire a tanto), Fanelli si ritrova a fare i conti con i lacerti della propria esistenza. Una situazione non fuori dall’ordinario, per una generazione a cui è stato rubato il futuro e un po’ ha concorso autonomamente a creare una situazione di insicurezza e precariato.

Da sempre il racconto è una forma di rassicuramento: le grandi narrazioni teologiche, filosofiche, romanzesche, finanche quelle scientifiche, servono a porci al sicuro. In quanto esposto (ai pericoli), l’uomo è colui-che-viene-posto-di-contro a insidie che provengono non solo dall’esterno, ma soprattutto dal proprio corpo. Fanelli non fa che capitolare la propria esistenza nel luogo in cui è stato esposto per la prima volta al negativo e in cui, pertanto, ha masticato un’idea necessaria e amara, cioè l’ineluttabile dovere del prendersi cura di sé.

Leggi anche: A proposito di Freud e dei Puffi: intervista a Ciro Fanelli

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Il negativo si presenta sin da subito a Fanelli nelle vesti di un diabete cronico: una forma giovanile che lo costringe a fare i conti con i limiti della carne. Una carne debole a cui si aggiunge un intervento per un diverticolo congenito che lascia una traccia indelebile sul suo corpo: «Sulla pancia avevo un taglio che andava da sotto l’ombelico giù giù fino all’attaccatura del pene. I lembi del taglio era tenuti insieme da un numero infinito di graffette… senza quei punti sarei esploso… A tre quarti del taglio c’era un’apertura da cui partivano tre tubi […] Per distrarmi dal dolore, passavo ore a fissare i tubi, soprattutto il più grande…. Me lo tolsero quasi subito ma… invece di sfilarlo lo tagliarono. Spuntava di pochi centimetri dal buco e per far sì che non mi sgusciasse dentro… lo fissarono con una spilla da balia».

Le pagine di Nel bosco del nostro splendore hanno questo tono analitico, si attardano con dovizia di particolari, tratteggiano laddove del (di)segno si è fatto epoché di immagini nette e precise nonostante la distanza, gli anni che sono trascorsi dagli eventi narrati. C’è una vivida forza in queste descrizioni, perché legate tra loro da un sottile fil rouge: l’epifania della mortalità e della finitudine.

Al memoriale delle giornate trascorse nei nosocomi e nelle corsie di quel luogo eterno in cui si consumano drammi e commedie qual è il pronto soccorso, Fanelli intreccia pagine più oscure dove un male incorporeo si fa strada tra i grumi della quotidianità: una sottile depressione, una malinconia che oscura le giornate lunghe e narcolettiche della provincia. Il consiglio spassionato del suo medico base – che in sé diventa archetipico – è quello di farsi una lunga passeggiata tra i sentieri del monte-che-monte-non-è.

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Queste promenade senza meta intrecciano in un miscuglio quasi onirico il passato e il presente. Il flusso dei pensieri subisce un rallentamento dovuto alla qualità del tempo. Se le grandi città impongono allo sguardo del viandante una velocità dovuta al flusso ininterrotto di informazioni e stimoli che sfumano nell’indefinito e nell’indifferente, lungo il serpeggiante sentiero che abbraccia il monte-che-monte-non-è, invece, la visione si affina sino a diventare quasi divinazione.

Quello che a primo acchito potrebbe essere scambiato per un diario intimo, diventa pagina dopo pagina, attraverso una babele di segni e simboli, l’incubo (o il sogno utopico) di un’umanità restituita alla sua atavica e primordiale natura. Nella coltre del bosco, popolato da alberi destinati alla morte, Fanelli incontra un essere alieno: un micelio antico quanto il mondo, che si dipana come un sistema nervoso lungo la massa addormentata del monte-che-monte-non-è.

Se la terra è ormai solcata da rete di cavi di fibra ottica che trasmettono informazioni senza sosta, inondando lo sguardo e le sinapsi degli spettatori, il micelio trasmette sensazioni, emozioni, passioni in maniera altrettanto istantanea sfruttando la via chimica. A un certo punto, la parola potrebbe decadere, svanire e lasciare il posto a una serie ordinata di processi chimici che trasmettono informazioni in maniera molto più netta e chiara dell’effluvio romantico del verbo.

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Ma Fanelli deve raccontare questa illuminazione, tracimando in un campo dove il memoriale si fa racconto fantastico come nella migliore tradizione italiana – da Dino Buzzati a Italo Calvino – ma che per gli esiti previsti è molto più vicino al Guido Morselli di Dissipatio H.G. La solitudine del protagonista, testimone inconsapevole di un’apocalisse, lo rende parente prossimo del protagonista del romanzo di Morselli. Laddove vi è l’evaporazione letterale o metaforica dell’humani generis, qui vi è invece l’ecpirosi, ma in entrambi vi è comunque un insieme di «poveri automi gesticolanti, prigionieri della loro fedeltà meccanica».

Se dovessimo avere l’esigenza di trovare un parallelo nel mondo fumettistico, farei due nomi: il Jean-Claude Forest di Ici Même e il Giacomo Nanni di Atto di Dio. Così come Arthur Même, Fanelli si ritrae lungo i margini, estraneo all’abitante di superficie. Il protagonista tratteggiato da Jacques Tardi si muove sospeso sui cancelli e sui muri perimetrali di una terra che non gli è stata sottratta: quello che gli appartiene è soltanto la signoria sui cancelli. Fanelli si muove come Arthur, un equilibrista tra i segni del bosco. Non è un caso che, tra le parole, l’autore incunei dei diagrammi: una specie di vademecum per noi estranei.

Con Nanni condivide, invece, il tentativo di dare voce all’alterità, senza scadere in un antropomorfismo deteriore. Il capriolo di Nanni e la mosca di Fanelli sono in stretta continuità, così come la prosa di Nanni e quella di Fanelli, entrambi attenti nell’accompagnare il lettore in territori preclusi e il cui linguaggio sono i colori e gli odori.

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Nel bosco del nostro splendore è un libro che affonda la sua necessità nella pura contingenza, eppure occupa per la sua eccentricità un posto di rilievo. Ad accompagnare il testo, ma non come semplice corredo, ma come parte sostanziale del percorso narrativo, ci sono le illustrazioni di Fanelli. Nella loro esuberanza, queste si trovano al crocevia tra la passione per l’iconografia dei tatuaggi e i bestiari medievali: la palette lisergica e quasi espressionista ha un forza fauvista, ma che sembra ereditare tanto la naïvité di Ligabue e Rousseau, quanto le cromie violente delle stampe giapponesi (se non dei tattoo della Yakuza).

In sintesi, il libro di Fanelli è un precipitato: timori, riflessioni, saperi, incubi, sogni e divinazioni si uniscono in un coacervo da esplorare.

Nel bosco del nostro splendore
di Ciro Fanelli
Rizzoli Lizard, ottobre 2018
Cartonato, 192 pp., colori
18,00 €

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