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Sunday Page: Lorenzo Ghetti su Chris Ware

Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».

Questa domenica è ospite Lorenzo Ghetti, nato a Pisa, classe 1989, si è diplomato presso l’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ex-membro del collettivo di fumettisti Delebile e autore del webcomic To Be Continued, di Per Sempre Altrove/Altrove Per Sempre e del graphic novel Dove non sei tu.

ghetti chris ware lint

Come mai hai scelto questa pagina da Lint?

Ho trovato questa pagina su un Best American Comics, i volumi che raccolgono ogni anno il meglio del fumetto statunitense scelto di volta in volta da un diverso autore (Chris Ware c’è quasi tutti gli anni). Ne avevano pubblicate solo 6 o 7 pagine, e non conoscendo il volume originale pensavo fosse un racconto breve. Ho scoperto mesi dopo che in realtà erano solo un estratto di un libro, e figurati che l’ho letto per intero solo qualche giorno fa.

Questa pagina mi colpì subito, sia per il gioco grafico delle vignette e dei testi caotici e precisi allo stesso tempo, ma soprattutto per come alcuni particolari permettono al lettore di entrare nella testa del protagonista e, senza distrarlo, di dargli dei flash di pensieri minuscoli ma presenti. Al centro vediamo il personaggio che si mette un dito in bocca e si rende conto di avere una pellicina, e il piccolo cerchio rosa ci fa capire che anche se sta facendo un discorso accorato sul futuro con questa ragazza, non riesce a non pensare alle tette.

Come mai, tra le opere di Ware, hai scelto proprio questa?

Probabilmente proprio perché, avendo trovato queste tavole slegate dall’opera lunga, sono riuscito a guardarle senza essere trasportato dalla storia. Io amo molto Chris Ware, ma ne soffro a volte la pesantezza, e nel “dover” leggere pagine e pagine della sua narrazione fitta difficilmente mi soffermo. Qui invece sono riuscito a godermele graficamente, e studiare come riesce a fare cosa.

Hai imparato qualcosa in particolare?

Nella singola pagina ci sono 3 tempi differenti (lui che guarda la partita, lui a casa di lei, lui in bagno dopo), e contemporaneamente 3 livelli di lettura (il suo monologo, le vignette che rappresentano dove è e cosa fa, e i suoi pensieri).

Il monologo crea il senso di lettura della tavola, entra in alcune vignette collegandole al discorso e sta fuori da altre creando però anche tutta una serie di vignette accessorie che non sono da leggere prima o dopo il discorso ma durante, come se la tavola fosse un ipertesto di contenuti tenuto insieme dal testo. Non avrebbe senso prendere tutte le vignette e metterle in fila, una dopo l’altra. Il punto, credo, è creare un mosaico, non una sequenza.

Ti ricordi come e quando hai conosciuto Ware?

L’ho scoperto perché me lo hanno fatto scoprire. Sono arrivato all’Accademia parecchio ignorante, e ho avuto fortuna di conoscere compagni di corso che mi hanno messo in mano alcuni fondamentali, di cui non sapevo nulla (Pazienza, Ware, Gipi, Asano, Peeters, Clowes etc). Quindi l’ho approcciato sapendo che era qualcosa che si “doveva conoscere”, e affrontai Jimmy Corrigan. Fu una lettura faticosa, ma mi rimase impresso come Ware non intenda venirti incontro, facilitarti la lettura: ti obbliga ad abituarti al suo linguaggio, pagina dopo pagina ci entri dentro e diventa naturale.

Perché per te era faticoso?

È sempre una questione di abitudine, penso. Ogni singolo autore piega il linguaggio secondo le sue necessità e alcuni lo piegano più di altri. Immagino anzi che piegarlo troppo possa essere visto come un elemento negativo, perché invece di far fluire la narrazione si rende percepibile l’autore. Un po’ come un regista troppo manierista che fa sentire la propria presenza per tutto il film contro magari un altro più classico, invisibile, che vuole solo raccontarti una storia nel modo più pulito possibile.

Ware è faticoso perché non scende a compromessi, le sue tavole sono fitte e ti impediscono di rilassarti, devi stare attento sempre. E dato che in genere non sono neanche brevi, io mi ritrovo a leggere i suoi libri un po’ per volta e ogni tanto mi devo riposare (a leggere Jimmy Corrigan ci ho messo una settimana). Però ogni volta che ne finisco uno avrei voluto fosse più lungo, che ci fosse ancora da leggere.

Il tuo approccio al fumetto è debitore del suo stile. Quando hai capito che quel modo di raccontare a fumetti ti si confaceva?

Penso che sia una delle influenze più palpabili. Il discorso di prima, sull’aderenza lettore-personaggio, mi sembrò molto potente. Che riuscire a fare quello, creare un linguaggio che aiutasse il lettore a seguire un personaggio quasi dall’interno, potesse essere uno strumento narrativo fondamentale.

Allo stesso tempo mi affascina il rigore, la precisione. Chi mi conosce sa che sono un po’ un precisino, fissato con l’ordine, e una tavola ben strutturata, dallo stile pulitissimo mi dà grande soddisfazione. Soprattutto se riesce a far convivere rigore e morbidezza, essere precisa senza risultare fredda.

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