John Benson bussò alla porta di un appartamento a Jamaica, nel Queens, in una imprecisata mattina del 1987. Gli aprì Bernard Krigstein, un signore quasi settantenne, alto un metro e settanta, tarchiato, le labbra e il naso che facevano a pugni su chi riusciva a ingombrare meglio il volto.

In pensione da tempo, Krigstein aveva lavorato tra gli anni Quaranta e Cinquanta a fumetti di consumo per le maggiori etichette. Famoso per Master Race, storia breve del 1955 che, nell’indifferenza generale dell’epoca, sconquassava la grammatica fumettistica, Krigstein fu «un pensatore, un provocatore, un radicale, un uomo di cultura che amava l’arte in tutte le sue forme, inclusa quella umile dei fumetti», così come lo definì il critico del fumetto Paul Gravett.

Bernard Krigstein Drew Friedman
Bernard Krigstein visto da Drew Friedman

Benson, storico del fumetto, era lì per sottoporgli una serie di tavole originali nel tentativo di capire se quei disegni provenivano dalla mano di Krigstein. All’epoca, gli autori di fumetti non erano soliti firmare le proprie opere e, con un monte pagine ragguardevole, ricordarsi di chi aveva prodotto cosa a decenni di distanza era tutt’altro che facile, anche per le persone coinvolte.

Quell’incontro fu l’occasione per un’intervista informale che sarebbe rimasta una delle pochissime concesse da Krigstein. Non perché gli piacesse fare l’eremita, ma soltanto perché fino a quel momento nessuno si era interessato ai suoi lavori, tranne pochi, oculati, lettori.

«Cercai di trascendere quei soggetti per tirar fuori l’idea dietro la storia», disse Krigstein nel 1962, riguardo i suoi fumetti. «Stavo scrivendo messaggi e mandandoli nel mare in una bottiglia. Era il mio tentativo di veicolare la lezione di come sarebbero potuti diventare i fumetti».

I suoi messaggi auspicavano una forma d’arte popolare che sarebbe potuta sbocciare in un’espressione degna delle considerazioni di critica e pubblico, se soltanto i professionisti che vi lavoravano l’avessero presa sul serio, come faceva lui. E quei messaggi chiusi nella bottiglia sarebbero stati recuperati soltanto anni più tardi da autori come Art Spiegelman, Frank Miller e Daniel Clowes.

Il suono dell’arte
«Appartengo alla cultura bassa, è il mio genere» dichiarò in una sua rarissima apparizione alla Boston NewCon nel 1978. «Non solo appartengo alla culturale bassa, non credo nemmeno che la cultura bassa sia bassa cultura. È tutta cultura. Tutte le arti sono parte di un grande fenomeno. L’artista, non importa in quali condizioni lavorative, comunica con un pubblico con lo scopo di trasmettere un’idea, una storia, una sensazione. È parte di un’unica cosa. So che è ingenuo, ma non mi arrenderò mai a rivendicare quell’idea».

Bernard Krigstein fumetti
Bernard Krigstein in uno scatto del 1950 dal volume Bernie Krigstein Vol. 1, 1919-1955 (Fantagraphics Books)

Il rifiuto di questa gerarchia culturale ha radici nell’infanzia, quando le strip fumettistiche e i libri d’arte convivevano, aperti, sul tavolo della cucina. Il piccolo Bernie stava sulle gambe di papà Selick mentre insieme scorrevano la pagina dei fumetti sul giornale, leggendo Mutt and Jeff, Toonerville Trolley e Slim Jim. Selick, immigrato dalla Bielorussia nei primi anni del Novecento, ancora adolescente aveva lavorato come sarto per pagarsi gli studi in ingegneria e aveva brevettato il Kriculator, un regolo calcolatore per stabilire il peso della carta diventato uno strumento standard negli uffici, e il Selculator, l’equivalente per calcolare le buste paga. Selick era l’esempio vivente di come tecnica e creatività si spronassero a vicenda.

Krigstein iniziò a disegnare dopo essere stato «fulminato da un panorama di Cézanne. Qualcosa di dormiente in me si svegliò. Ero sempre stato affascinato dalle immagini ma ora era successo qualcosa che non mi era ma capitato prima. Avevo sentito il suono dell’arte».

Era un ragazzino composto, col cuore che gli bruciava di passione per il disegno. La sorella Sarah raccontò che una volta si mangiò una mela che Bernard stava usando come soggetto di una natura morta: «mi corse dietro urlando di proporzioni e composizione». Ciononostante, quando si iscrisse al Brooklyn College invece che corsi di pittura e storia dell’arte, seguiva lezioni sulla contabilità aziendale. «Venne fuori che i genitori di Bernie gli avevano detto che una carriera da contabile sarebbe stata più pratica» raccontò la moglie Natalie Horvitz.

I genitori di Natalie erano emigrati dalla Bielorussia come quelli di Bernard. La madre Mary lavorava come sarta in una delle botteghe più rinomate di Manhattan ed era politicamente impegnata nel partito comunista; lo era anche il fratello di Natalie, William, che, da adulto, sarebbe diventato un romanziere, avrebbe collaborato con Orson Welles e combattuto nella guerra civile spagnola.

Bernard Krigstein
Una vignetta da “Key Chain”

Krigstein l’aveva conosciuta al secondo anno. Si era presentato alla fine di una lezione e avevano preso la metropolitana insieme per tornare a casa. Lei si dilettava a disegnare i pendolari seduti di fronte e lui si permise di fare altrettanto. «Appena la punta della matita toccò la carta» ricordò la donna, «capii che quel ragazzo era un vero artista». Fu Natalie a suggerirgli di cambiare corso di studi: alla peggio, sarebbe comunque potuto diventare un insegnante d’arte. Krigstein definì quel momento «una sorta di rivoluzione psicologica e la decisione più importante della mia vita».

Passò le estati a copiare i quadri appesi al Metropolitan, tentando di vendere i suoi dipinti a qualche galleria, ma lui e Natalie, divenuti marito e moglie nel 1942, avevano bisogno di entrate stabili. Mise da parte quello che poté con lavori saltuari (muratore, saldatore) temendo che da lì a poco sarebbe stato chiamato a combattere nella Seconda guerra mondiale.

Venne a sapere che il marito di sua cugina Esther si guadagnava da vivere come scrittore di redazione per lo studio fumettistico di Bernard Baily, uno dei tanti situati nella zona di Times Square. Krigstein era riluttante all’idea di lavorare nei fumetti perché «avevo un pregiudizio che, i fumetti, come arte, non valessero la mia attenzione. Da giovane avevo adorato le strisce a fumetti umoristiche ma quelle di avventura mi causavano repulsione».

Bisognoso di un impiego, cedette. Dopo un breve rodaggio (cancellare le matite, riempire i neri, inchiostrare gli sfondi), Baily lo mise a disegnare storie per Prize Comics che Krigstein non firmò, perché le considerava «robaccia, nella sua distillazione più pura».

Fece in tempo a consegnare qualche altra storia e poi, nel marzo 1943, venne arruolato. Finì in Gran Bretagna, a disegnare mappe, poster e scritte per l’esercito. Tornò a New York nell’ottobre 1945, la sua scrivania negli uffici di Baily era lì ad aspettarlo.

Una tavola dalla storia The Witch Doctor’s Madness!, da Nyoka the Jungle Girl #14 (1947)

I fumetti di questo periodo sono pieni degli orrori che aveva sperimentato in guerra, dei campi di battaglia martoriati che aveva visto durante la fuga dall’offensiva delle Ardenne in Belgio. Disaccordi con Bailey portarono al suo trasferimento in un altro studio, Funnies Inc., e poi in editori come Novelty, Orbit Publications e Fawcett Publications. Per quest’ultima produsse centinaia di pagine su titoli come Nyoka the Jungle Girl e Golden Arrow. La sua produzione aumentò giocoforza per far fronte alle spese mediche della moglie. Il parto travagliato del loro primo figlio, Paul, aveva tenuto allettata Natalie per più di un anno (Paul sarebbe morto dopo sedici mesi).

Al servizio di quasi tutte le case editrici attive nel settore, Krigstein accettò degli incarichi anche per DC Comics, scontrandosi con l’astioso editor Robert Kanigher, che non tollerava la sua incapacità di adattarsi allo stile dell’editore. Alla fine fu licenziato per aver bucato una scadenza e per aver mentito a riguardo (stava ultimando una storia per un altro committente). Secondo l’editor «semplicemente, non era bravo abbastanza da essere necessario, nemmeno per le storie brevi». Stando alla testimonianza della moglie, Krigstein venne inserito nella lista nera della DC e non lavorò più per loro.

Potenzialità inespresse
Attraverso lo studio di Rip Kirby di Alex Raymond imparò l’arte del panneggio, la forza della prossemica, l’attenzione ai costumi, la messa in scena ragionata. In The Last Look il protagonista è disegnato mentre indossa una camicia e Krigstein rende con vividezza l’atto di infilare il braccio e dimenarlo cercando la via d’uscita in fondo ai polsini.

Bernard Krigstein the last look fumetto
Una tavola da The Last Look (1957)

Comprese che il settore in cui era entrato per esigenze di sostentamento stava producendo espressioni artistiche legittime. Si impegnava per rendere ogni momento della sceneggiatura più scialba una vignetta che valesse la pena leggere. In Death of Nuggets Nugent, disegnò lo svolgersi di una scazzottata in un’unica vignetta, anticipando i virtuosismi simultanei di Gianni De Luca.

Vedeva il fumetto composto da vignette che dovevano vivere in autonomia ma allo stesso tempo essere parte di un flusso: «Se riesci a prendere una vignetta e appenderla come un quadro e poi vedere il lettore che inconsciamente riesce a leggere la totalità, allora hai raggiunto qualcosa. Hai innalzato il fumetto al livello di Goya». Non esistevano raccordi, coperture, vignette di passaggio. Ogni momento valeva.

Ispirato dal cinema, cerca di abbellire ogni vignetta con scenografie studiate, tentando al tempo stesso di rispettare le scadenze. Alcune sue storie vantano set e costumi degni di un kolossal, come il western The One and Only Tex, o Poetic Justice, una vicenda che offre il fianco a una resa maestosa della Cina del 1122 a.c., dove la cultura è bandita e l’imperatore ha messo fuori legge l’ozio creativo dei poeti.

Bernard Krigstein the catacombs fumetto
La pagina d’apertura di The Catacombs (1954)

Sapeva come comporre, come guidare l’occhio in una scena. «Aveva un piano ben preciso e un’idea di design specifica» ricordò Marie Severin, che colorò diversi racconti di Krigstein e collaborò alla riedizione in volume degli stessi, all’inizio degli anni Duemila. Veniva percepito come un intellettuale, tanto che un suo collega disegnatore disse: «Bernie prende davvero sul serio questa roba!». Il suo era un profilo – per usare le parole di Art Spiegelman – che aveva più in comune con la redazione del Partisan Review che con quella che produceva Space Patrol.

Considerava quello del fumettista un lavoro bistrattato e, per questo, alla fine del 1952 cercò di fare sistema attorno alla propria professione, fondando un sindacato dei fumettisti. Secondo le sue intenzioni, il sindacato avrebbe dovuto elevare la qualità dei fumetti perché innalzando gli ingaggi dei membri gli editori avrebbero preteso artisti più bravi e non gente che, pagata un tozzo di pane, lavorava a tirar via.

L’esperienza si rivelò un inferno organizzativo. Il gruppo si teneva insieme con lo sputo, tanto che perfino il nome del sindacato fu oggetto di scorno: Krigstein voleva che si includesse il termine “illustratori” per togliere al mestiere la nomea di disegnatori di serie b e alla fine si optò per “Society of Comic Book Illustrators”; l’esitazione della vecchia guardia, il sabotaggio da parte degli editor (in DC Comics si promettevano posti fissi nella redazione a patto di scindere i rapporti con il sindacato) e il cinismo di una comunità che non credeva in prima persona di poter aspirare a qualcosa di meglio fecero il resto.

Come scrive Jean-Paul Gabilliet in Of Comics and Men: A Cultural History of American Comic Books «alla meglio, i fumettisti si consideravano artigiani mercenari, alla peggio disegnatori falliti pagati per illustrare storie su cui non avevano alcun controllo».

L’industria attorno a lui frenò, nessun editor era interessato a elevare la qualità dei prodotti. O, meglio, la cosa poteva anche andare, bastava che questo non comportasse più tempo e più soldi. Lo scopo di questi fumetti restava attirare gli adolescenti con titoli sensazionalistici e trame “shock”. Il sindacato cessò di esistere nell’estate del 1953, a neanche un anno dalla sua fondazione.

Questione di stile
«Non ho mai pensato a uno stile» spiegava in un’intervista. «L’idea del disegno era troppo grande per essere confinata in uno stile. Il mio approccio era diverso. Ero attratto dalla possibilità di usare una forma d’arte popolare per modellarla secondo proporzioni classiche. L’idea di armonizzare la popolarità con la monumentalità mi ha sempre attirato». Come scrive Greg Sadowski in Messages in a Bottle: «quando sentiva di aver imparato al meglio un certo approccio, di non aver più spazio di crescita, passava alla sfida successiva».

Nei fumetti disegnati per Hillman Periodicals abbandonò progressivamente il chiaroscuro per concentrarsi sulla linea e, più attento alla colorazione, realizzò tavole che sembravano vetrate liberty come quelle di The Highwayman e Blacksmith Belle Malone o Monster of the Seas. Dopo lunghe contrattazioni, l’editor Ed Cronin gli concesse lo spazio per gestire le sceneggiature come meglio credeva, lasciandolo libero di sperimentale combinazioni di vignette diverse senza sentirsi vincolato a ciò che era scritto sulla pagina, e di inchiostrarsi da solo. Vedendo i disegni finalmente rappresentarlo al meglio come artista, smise di usare il nomignolo B.B. Krig (le iniziali del nome che aveva nell’esercito, Ballbuster, “rompipalle”) e si firmò B. Krigstein.

Raggiunto il picco con Black Silver Heart, una storia di vendetta dal sapore cinematografico, abbandonò la Hillman e la linea chiara che lo aveva accompagnato durante quel periodo. Passò alla Atlas – futura Marvel Comics – dove il suo editor Stan Lee lo incoraggiò a scimmiottare lo stile di Joe Maneely. Le sue tavole si fecero ombrose come quelle del matitista preferito di Lee, ma in questo periodo a influenzarlo furono soprattutto le illustrazioni della Guerra Civile di Winslow Homer e lo stile minimalista che Alex Toth stava adoperando nei racconti di guerra per Standard Comics.

waly wood bernie krigstein harvey kurtzmann
Da sinistra: Wally Wood, Bernie Krigstein e Harvey Kurtzman alla NewCon di Boston nel 1978

Durante il suo periodo alla Hillman, Krigstein aveva ricevuto una telefonata dalla EC Comics. William Gaines aveva ereditato la casa editrice dal padre Max, morto in un incidente in barca nel 1947, e l’aveva rivoluzionata varando nuove testate e assumendo come editor Al Feldstein e Harvey Kurtzman. Quest’ultimo voleva Krigstein nella squadra che stava assemblando. Di fronte a tariffe più basse della norma, Krigstein rifiutò.

Dopo due anni, insoddisfatto dalla Atlas, contattò Kurtzman per ridiscutere l’offerta. Kurtzman e Feldstein avevano assemblato un gruppo di autori che annoverava, tra gli altri, Johnny Craig, Jack Davis, Frank Frazetta, Jack Kamen, Joe Orlando, John Severin, Al Williamson, Basil Wolverton e Wally Wood. Krigstein percepì un’energia diversa, come se fosse arrivato nello spogliatoio di una squadra all-star. La sua seconda storia per EC fu The Flying Machine, adattamento da un racconto di Ray Bradbury, realizzato con tale cura che Bradbury stesso scrisse all’editore per complimentarsi del lavoro svolto.

The Flying Machine Bernard Krigstein
Una tavola di The Flying Machine (1953)

Alla EC, però, il metodo di lavoro era diverso: l’editor si occupava di abbozzare le tavole, a cui veniva aggiunto il lettering e poi passato al disegnatore, il quale doveva soltanto riempire i vuoti. Feldstein accettò di buon grado che fosse Krigstein a lavorare sui layout, finché il numero di pagine rimanesse lo stesso. Ma il disegnatore cercò di combattere questo assunto: «Volevo altre vignette, ero disperato. E per la disperazione iniziai a dividere le vignette. Arrivai a un punto in cui era assurdo disegnare sei vignette per un certo testo. Vedevo testi che necessitavano 12, 18 vignette. Vedevo la gente fare cose ridicole nel tentativo di contenere tutto in sei vignette». Di fronte alla richiesta di più pagine, gli editor gli rispondevano che poteva aggiungere tutte le vignette che voleva, purché rimanesse nel numero di tavole stabilito.

Nonostante le costrizioni, produsse lavori pregiati, che scalciavano per una cura maggiore da parte di tutti i professionisti coinvolti e aspiravano al meglio. Nei due anni alla EC Comics produsse 44 storie, i cui stili spaziavano dall’espressionismo tedesco alla linea chiara fino alle influenze orientali. Ma i lettori gli preferivano le astronavi dettagliate di Wally Wood o i cadaveri marcescenti di Graham Ingels.

In the Bag, una delle ultimissime storie prodotte per EC, arrivò a comporre una pagina di diciassette vignette, in cui fa recitare a un reo confesso un monologo sfaccettato da continui cambi d’animo.

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Una tavola da In the Bag (1954)

La scansione inusuale degli spazi si ritrova anche in The Catacombs, racconto in cui due ladri nascondono la refurtiva nel dedalo di una catacomba. Invece di primi piani e inquadrature anguste, per rappresentare la claustrofobia, Krigstein disegna i due personaggi distanti, isolandoli in macchie di colore e spazi vuoti. Tutti questi eccellenti lavori sono tappe evolutive verso l’opera che lo immortalerà nella Storia del fumetto.

Razza padrona
Nella primavera del 1954, Feldstein gli consegnò la sceneggiatura e i layout di Master Race, una storia che Krigstein definì «la cosa più esplosiva che avessi mai letto da quando lavoro nei fumetti». Il soggetto, scritto da Feldstein, ha per protagonista Carl Reissman, un uomo tormentato dai ricordi dell’Olocausto. Fuggito in America, durante un viaggio in metropolitana si scontra con un individuo che lo riconosce come il capo di un campo di concentramento. Dopo una breve fuga, Reissman cade tra i binari e muore.

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La tavola di apertura di Master Race (1955)

Master Race è inusuale tanto nell’esecuzione quanto nei contenuti. Nello stesso periodo Alain Resnais stava girando il documentario Notte e nebbia che avrebbe destato scalpore in tutta Europa. Il tema dell’Olocausto era quindi sì scioccante, come pretendeva l’editore, ma anche inedito per l’intrattenimento popolare, che avrebbe iniziato a inserire l’argomento nei suoi discorsi soltanto anni più tardi.

Come scrive Art Spiegelman, le qualità di Krigstein come narratore rendono Master Race un tour de force in cui il tempo si estende e si condensa e la mano del disegnatore non scivola mai nel granguignolesco come erano soliti fare i fumetti EC: «Il breve inseguimento che culmina con la morte di Reissman occupa lo stesso numero di vignette che servono per raccontare tutto il suo retroscena; la vita di Reissman galleggia nello spazio come la materia in sospensione di una lava lamp. L’effetto cumulativo ha un impatto – allo stesso tempo viscerale e intellettuale – che è unico del fumetto».

L’autore di Maus aveva frequentato l’High School of Art and Design e conosciuto Krigstein tramite i racconti dei suoi compagni: «Era un ometto con la reputazione del tipo tosto, serio e completamente disinteressato ai fumetti». Ne era diventato subito un seguace. Aveva scritto perfino un tema su Master Race e si sarebbe speso anche in età adulta per la divulgazione delle sue opere (nel 2002 firmò una una recensione della biografia di Krigstein per il New Yorker).

Insieme a Bhob Stewart e John Benson, Spiegelman si sarebbe impegnato a far riconoscere il talento di Krigstein a livello di pubblicazioni critiche, evitando che i suoi contributi al fumetto si perdessero nell’indifferenza generale. Benson e Stewart saranno i primi a intervistare Krigstein nell’agosto del 1962 e poi ancora nel 1975 per un numero monografico della fanzine Squa Tront, su cui viene pubblicato anche An Examination of Master Race, un saggio critico firmato da Benson, Spiegelman e David Kasakove.

In An Examination of Master Race i tre autori affermano che il potere della storia è dovuto allo stile in antitesi con il modo classico di raccontare dei fumetti. Invece che utilizzare l’esagerazione tipica di questa forma (le linee cinetiche, le gocce di sudore), cerca l’oggettività, si mantiene a distanza, impiega un’illuminazione astratta, angoli acuminati e linee dure. «Più chiara e ordinata fosse stata la storia, più oggettivamente l’avessi realizzata, più il suo contenuto emotivo avrebbe pesato» disse Krigstein, commentando la disamina dei tre. «Pensavo che l’intensità della storia sarebbe stata resa al meglio con la chiarezza totale – totale, bellissima, chiarezza».

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L’ultima tavola di Master Race (1955)

«Osserviamo, qui, come lo sforzo di recuperare l’equilibrio vi appaia progressivamente più disperato, vignetta dopo vignetta» scrive Daniele Barbieri in riferimento alla tavola conclusiva di Master Race. «Nell’ultima, poi, il vuoto sopra al nostro uomo è diventato ormai talmente tanto che è evidente che lui appartiene già allo spazio di sotto, quello del treno – come se venisse risucchiato da quella dimensione inferiore che ci è già stata presentata quattro vignette prima».

Nell’introduzione a Bernie Krigstein Vol. 1, 1919-1955 la moglie ricorda l’entusiasmo con cui Krigstein lavorava alla storia: «Il soggetto lo scuoteva profondamente e voleva rendergli giustizia. Ne divenne ossessionato. Capì che avrebbe dovuto dedicarci più pagine del necessario». Ingaggiò un ping pong di telefonate con Feldstein e Gaines per aumentare la foliazione della storia a dodici pagine, richiesta ridimensionata a dieci e alla fine otto, due in più della norma. Gli ci volle un mese per completarla – il doppio del tempo concessogli. Poi rimase negli armadi della EC per sei mesi. «Non sapevano che farsene, ogni volta che passavo per gli uffici li esortavo a pubblicarla».

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La copertina del primo numero di Impact (1955), disegnata da Jack Davis, che presenta la storia Master Race

Nel 1955 la scure dello scandalo si abbatté sui fumetti: lo psichiatra Fredrick W. Wertham nel suo La seduzione degli innocenti dichiarò i fumetti strumento di corruzione per le menti dei più giovani. Il testo scosse l’opinione pubblica e condusse a un’audizione del Congresso degli Stati Uniti d’America sul rapporto tra fumetti e delinquenza giovanile. Le vendite crollarono e per correre ai ripari gli editori si riunirono per costituire il Comics Code Authority, un’autorità volta a verificare il contenuto delle pubblicazioni.

Alla fine la storia apparve nel primo numero di Impact, una testata nata appena prima dell’istituzione del codice. Avessero aspettato ancora, dato il contenuto, Master Race non avrebbe mai visto la luce.

Il fumetto ti spaccherà il cuore. L’illustrazione anche
In seguito alla caccia alle streghe di Wertham, la EC caracollò al suolo. Pur di garantire sicurezza economica alla famiglia (nel 1949 la coppia aveva adottato una bambina, Cora), Krigstein tornò a malincuore in Atlas, che nel frattempo aveva abbassato il pagamento a pagina a 23 dollari. Si impegnò a realizzare tredici storie in due mesi.

Una pagina di The Last Look in cui Krigstein si lascia andare a un momento di storytelling silenzioso

The Last Look, una delle sue ultime storie per la Atlas in cui la storia di un chiaroveggente truffaldino ha una visione del socio mentre commette un omicidio viene raccontata con il ritmo cadenzato in 4/4 grazie alla divisione in quattro vignette per ogni riga. La tensione, la lotta – con la scansione precisa dei momenti – portano al colpo di scena finale.

Krigstein verrà dissuaso dal proseguire questa sperimentazione. Tentava di elevare anche le storie d’intrattenimento più effimere, mentre tutti gli sconsigliavano di perderci troppo tempo. Poi, la smania lemmatica di Stan Lee, sempre pronto ad aggiungere la voce narrante a momenti visivi come lo scontro tra il protagonista e il suo socio in The Last Look, e i cordoni che si strinsero attorno alla borsa dei compensi lo convinsero ad abbandonare la Atlas nel gennaio 1957. «Se avessi potuto espandere quel materiale, sento che avrei potuto fare cose molto buone» dirà pochi anni più tardi. «E in tutti quegli anni, francamente, ho nutrito la frustrazione… Un senso che qualcosa di bellissimo sarebbe potuto accadere se mi avessero lasciato fare».

Con l’obiettivo di legittimare il mezzo, passò i successivi cinque anni proponendo un nuovo prodotto agli editori di varia: adattamenti fumettistici di grandi romanzi, idea che gli era venuta dopo la buona accoglienza di The Flying Machine. Pur di far capire il potenziale dell’operazione aveva realizzato storyboard dettagliati in cui le pagine di Il segno rosso del coraggio, Fahrenheit 451, L’isola del tesoro e Guerra e pace fiorivano in sequenze cinematografiche. Ma quando Ballantine, Knopf e Putnam rifiutarono il progetto, capì che era tempo di gettare la spugna.

La copertina di The Manchurian Candidate (1959)

Lavorò sulle copertine di libri, album e manuali, ma l’esperienza da illustratore lo fece ripiombare nelle meccaniche da cui era fuggito. Gli editor di un testo scolastico gli chiesero di disegnare un gruppo di Negro Spirituals senza afroamericani perché altrimenti le vendite nel sud del paese sarebbe colate a picco. Si rifiutò e perse l’ingaggio; quando lavorò alla copertina per The Manchurian Candidate di Richard Condon, il capoprogetto gli ordinò di addolcire lo schema cromatico rosso-bianco-blu. L’immagine arrivò in stampa inalterata solo grazie all’intercessione di Condon. Le entrate non erano così alte da giustificare i continui bracci di ferro e, alla fine, Krigstein si stancò di avere a che fare con editor e art director.

Gli tornò utile il suggerimento della moglie di quando erano ragazzi: «alla peggio, l’insegnamento». Nel 1962 fece domanda per insegnare alla High Scool of Art and Design. Con sua sorpresa, scoprì che gli piaceva assistere alla curva d’apprendimento degli studenti e tornava a casa meravigliandosi dei loro progressi.

L’ultimo fumetto che firmò fu Blind Man’s Bluff… una storia di 32 pagine basata su 87th Precinct, omonima serie di romanzi gialli di Ed McBain, apparsa in Four Color #1309 («la sceneggiatura era così stupida che disegnai di proposito in maniera esagerata»). Aveva trovato il suo posto nel mondo, mentre il fumetto era rinato grazie alla spinta dei supereroi. Ma di quelli Krigstein non voleva più saperne.

Una tavola da Blind Man’s Bluff… (1962)

Quando, nel 1962, gli dissero che Lee era considerato l’apripista della rinascita dei fumetti, Krigstein rispose: «Sono felice di saperlo. Vent’anni di sforzi editoriali profusi a incoraggiare un pessimo gusto e a inondare il mercato con imitazioni degradate e non-storie lo hanno di certo qualificato per quella posizione». Agli studenti che avevano scoperto la firma del professore in qualche fumetto e gli chiedevano del suo passato, Krigstein rispondeva con una smorfia di fastidio, dicendo che era «roba di anni fa» e cambiando subito argomento.

Insegnerà lì fino al 1981, anno del suo definitivo ritiro a vita privata. Si concederà occasionali lezioni magistrali negli istituti di Brooklyn, corsi di ballo, partite a tennis e tanta pittura. I ponti di New York diventarono il suo soggetto urbano preferito, i monti Adirondack quello naturale. «Bernie non smise mai di dipingere» raccontò la moglie, «dal giorno in cui lo incontrai nel 1937 nel campus del Brooklyn College fino a quando, indebolito dal cancro, riusciva appena a scrivere il proprio nome». Il decorso della malattia fu breve e, dopo due mesi dalla diagnosi, Krigstein morì l’8 gennaio 1990.

Coda
Intanto, una nuova generazione di autori, affacciatasi al fumetto negli anni Ottanta, aveva riscoperto Krigstein, fumettista per fumettisti. Ispirato dalla scena finale di Master Race, in Il ritorno del cavaliere oscuro, Frank Miller dilata l’omicidio dei coniugi Wayne in modo che nella testa di Bruce Wayne quei dieci secondi dell’assassinio sembrino ore. «Oh, non è un’ispirazione» ci tiene a precisare Miller. «È arrivato prima lui e io l’ho imitato».

frank miller batman cavaliere oscuro
Una tavola di Frank Miller da Il ritorno del Cavaliere Oscuro (1986)

Replicò la mossa anche in Daredevil e Ronin, prestandosi a paragoni non sempre favorevoli. Nel 1983 Kim Thompson recensì Ronin su The Comics Journal paragonando la tecnica di Krigstein alle conseguenze estreme a cui la portava Miller: «Quando Bernie Krigstein divideva una pagina in schegge di tempo, si preoccupava di stabilire prima l’ambientazione e i personaggi e poi usava il suo senso del ritmo per zoomare su un dettaglio importante. Miller invece porta avanti una scena, dall’inizio al climax, usando queste vignette opprimenti e l’effetto è alienante». Se non altro, il messaggio di Krigstein era stato recepito.

Nel 1954 la fanzine EC Slime Sheet chiese a Bernard Krigstein una breve biografia da pubblicare insieme a i suoi fumetti: «Penso di aver iniziato a disegnare prima ancora di aver imparato a parlare. E non ho mai smesso da allora (di disegnare). Ho studiato arte e poco dopo ho trovato la mia strada nei fumetti. Dopo due anni e mezzo nell’esercito, ho ritrovato la mia strada nei fumetti. Ho realizzato qualche dipinto e illustrazione, ma penso di divertirmi di più a raccontare una storia per immagini. Ho cercato di ricreare gli stessi effetti utilizzati dal cinema, come nell’anticipazione di una scena. Certo, c’è una differenza, perché il disegnatore racconta la storia per immagini statiche. Mi piace variare il mio stile di tanto in tanto, a seconda della sceneggiatura, o solo per provare. Sono felicemente sposato e padre di una bambina. Penso che questo basti a raccontare tutta la mia storia».