Quando si parla di bellezza, si parla di soggettività. E quando si parla di soggettività, di solito, si finisce nel campo del “tutto è lecito”. Ci sono cose il cui giudizio, misurato con strumenti quanto più oggettivi e scientifici possibili, è tendenzialmente assodato. Quarto potere potrà anche non essere piaciuto al vostro vicino di seggiola ma cionondimeno resta un film dall’importanza capitale e dai meriti indiscutibili.

Ecco, quando si parla di film tratti dai fumetti (tendenzialmente supereroistici), il dittico di Hellboy (2004) ed Hellboy: The Golden Army (2008), entrambi scritti e diretti da Guillermo del Toro e tratti dalla serie di Mike Mignola, difficilmente trovano spazio nel discorso, eppure per quanto mi riguarda sono uno degli esempi migliori del genere, forse il migliore, nel caso di The Golden Army.

Appartengono al cinefumetto vero, che picchia, sconquassa e distrugge ma racconta di cose profonde, senza tentare di sembrare altro, senza pentirsi di essere un film-fumetto, come invece fa il Batman di Christopher Nolan (o come pare voglia fare Joker di Todd Phillips), ma nemmeno senza lasciarsi andare a una continua sequenza d’azione travestita da film.

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Del Toro e gli attori sul set di Hellboy

The Golden Army in particolare è stato un esempio riuscito di adattamento che mantiene intatta l’essenza dell’opera eppure la snatura, che uccide il padre per onorarne il nome, operando cambiamenti drastici (tanto per dirne una: Abe Sapien nei fumetti è un pesce tutto d’un pezzo, mentre nei film ha maniere delicate e un animo sensibile).

Uscito nell’anno di Iron Man e de Il cavaliere oscuro, Hellboy: The Golden Army stava nel suo, evitando la seriosità di Christopher Nolan ma senza ammiccare con la ruffianeria totalizzante di Jon Favreau. Dentro c’è di tutto: inni ecologisti, parabole morali, racconti di maternità, destino, morte, vita. Perfino una scena in cui Hellboy e Abe Sapiens cantano a squarciagola Can’t Smile Without You di Barry Manilow, anticipando il mash-up “Supereroi e vecchia musica da sabato pomeriggio” di Guardiani della galassia.

Il franchise di Hellboy ha assunto sempre forme diverse. Nei fumetti, Mignola ha progressivamente abbandonato la miscela di pulp e fantasy prediligendo quest’ultimo elemento e declinando secondo canoni precisi: il fantasy medievaleggiante di matrice inglese e quello mitteleuropeo.

A un certo punto lo sferragliare delle catene, la simbologia nazista, il ferro ossidato e tutto quel corollario di temi e scenografie ha smesso di interessare a Mignola. L’autore si è stancato del pastiche in salsa pulp-nazista, gli è andato a noia girovagare attraverso le tradizioni fiabesche del globo (Africa, Giappone, Oceania) e ha trovato il suo porto sicuro tra le tinte maggese di storie come Il richiamo delle tenebre e La caccia selvaggia.

A entrambi piace il fantasy che entra ed esce dalle nostre vite, una sorta di fantasy riluttante, precario, minacciato da forze esterne, eterno tramonto che sta per spegnere la propria luce. Tutto questo Mignola lo disegna con le crepe, le aree diroccate, le macerie, la pietra che frana, i chiodi di ottone. del Toro con gli ingranaggi, i meccanismi, le molle e i giroscopi che saltano dai cardini.

Seguendo questo mutamento, il primo film di del Toro era una vera lettera d’amore al pulp anni Quaranta, tutti vestivano con giacche di pelle nera, ogni oggetto o pezzo di scenografia era macchinoso e ingombrante; mentre il sequel del 2008 sintetizzava due poetiche, quella di Mignola e quella di del Toro, includendo elementi e personaggi che appartengono alla fase tarda della serie.

«Quelli di Hellboy sono film personali» spiega il regista nel commento audio del primo Hellboy, «che rappresentano la mia visione dell’amore e del senso di scelta che si ha nel vivere la vita».

Del Toro rispetta l’essenza di Hellboy, che nel fumetto è un idraulico, uno che tratta i casi paranormali come eventi banali, noiosi e quotidiani. Parla poco, si esprime attraverso le sue azioni e gran parte delle sue azioni prevedono il rifiuto la sottrazione agli eventi. Ovviamente, il suo stato di eroe non fa che scontrarsi con questo assetto mentale, generando conflitto.

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Ma visto che reading is misreading e ogni interpretazione è giocoforza un tradimento, Hellboy: The Golden Army è un film che di Hellboy ha qualcosa ma non molto. Se il primo Hellboy era un omaggio all’immaginario di H.P. Lovecraft, The Golden Army sposta lo sguardo sul fantasy puro, genere che del Toro in quegli anni stava frequentando con esiti felici. In questo senso, The Golden Army è un sequel non tanto del primo Hellboy ma de Il labirinto del fauno.

Arrivato al suo settimo lungometraggio, l’autore sa cosa gli interessa (la natura, il ruolo della magia, la pericolosità della magia e delle scelte che le persone fanno) e come rappresentarlo: ne esce un film più divertito e tecnicamente raffinato in cui la macchina da presa si muove elegante tra le scene, le inquadrature sono sempre bilanciate e vivide, grazie all’uso di colori complementari (blu e arancio, rosso e verde).

Come disse in un’intervista con Anthony Breznican: «Il fantastico è l’unico strumento che abbiamo oggi per spiegare la spiritualità a una generazione che rifiuta di credere nel dogma o nella religione». Nella pellicola, l’uomo ha dimenticato la mitologia, le creature altre dalla razza umana vivono ai margini della società e gli elfi si preparano a morire. Tutti tranne il principe Nuada, ancora convinto che la sua razza possa salvarsi dall’estinzione. Per questo è alla ricerca dell’ultimo pezzo della corona che gli permetterà di comandare l’armata d’oro e reclamare il dominio della propria razza.

Nel penultimo capitolo de Il ritorno del re, “Percorrendo la contea”, Tolkien racconta il disfacimento della contea, un tempo luogo idillico che, al ritorno di Frodo, è diventata una landa straziata dall’arrivo del male. La sequenza serviva per sottolineare come il viaggio per la distruzione dell’anello avesse cambiato non soltanto l’animo dei personaggi ma anche il loro luogo d’origine. Secondo il narratore, il mondo non include più la prospettiva di una vita bucolica, annientata da modernità e industrializzazione. In questo processo, l’individuo è messo di fronte alle proprie responsabilità. L’idealismo escapista, tanto in Tolkien quanto in The Golden Army, è una soluzione irrilevante e perfino irresponsabile.

In questo, Del Toro supera Peter Jackson mettendo in scena la rovina del popolo degli Elfi, un tempo civiltà avanzata, ora finita a vivere nel sistema fognario della metropolitana, dove una tavolozza dorata e foglie autunnali segnalano la fine di un’epoca. Nuada è l’Altro, lo sconosciuto, il diverso, un antieroe messo a forza nel ruolo di antagonista che mostra i pericoli di perdere la propria cultura, la responsabilità morale dei singoli e l’inefficacia del pragmatismo.

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Hellboy questa attrazione verso l’Altro la sente fortissima, perché gli umani non lo apprezzano, lo considerano un mostro e lui si sente più a suo agio con le creature che ogni giorno deve imprigionare, sconfiggere, uccidere, che con quelle che dovrebbe difendere. Quando finisce al mercato dei troll – la classica ambientazione da bar di Guerre stellari, solo in versione fantasy – Hellboy si sente immediatamente a casa, in un posto dove «nessuno mi sta guardando», dove si confonde con la folla ed è solo uno dei tanti.

The Golden Army è un film tutto centrato sulle scelte. Quelle di Abe Sapiens, innamorato della sorella del principe, la principessa Nuala, quelle di Liz Sherman, che alla fine della storia sarà chiamata a decidere del destino dell’umanità. Ognuno è messo davanti a delle scelte e alle conseguenze che queste scelte comportano (alcune immediate, altre futuribili).

In una delle scene più potenti e pietose, il principe Nuada scatena contro Hellboy uno degli Elementari, una creatura gigante che rappresenta la natura. Nuada informa Hellboy che l’essere è l’ultimo della sua specie e il protagonista deve scegliere: salvarlo o ucciderlo, per difendere una popolazione che odia Hellboy e lo considera un mostro.

L’Elementare muore e, rientrando in un ciclo vitale, sparge la propria linfa su un intero quartiere, rinverdendolo come un giardino. Il demone ha fatto la sua scelta ma l’episodio è una delle ragioni che lo porterà, alla fine del film, a prendere una seconda decisione: lasciare il B.P.R.D., stanco delle forzature e delle costrizioni che il dipartimento ha imposto per anni.

The Golden Army era un film che pretendeva un seguito, lo urlava a gran voce ma le vicende, distantissime dal materiale di base, avrebbero condotto la serie per altri luoghi.

Si è preferito fare marcia indietro, forse anche perché Mignola sentiva che l’Hellboy cinematografico era diventato una creatura più di del Toro che sua. I primi due Hellboy erano stati pensati come film di medio budget ma non avevano portato a casa abbastanza soldi da giustificare un ulteriore investimento, o almeno un investimento consono alle ambizioni di del Toro, che nel mentre era diventato un nome powerhouse, aveva quasi diretto Lo Hobbit (poi abbandonato a causa di un’attesa che si è protratta troppo a lungo, o di dissidi tra lui e Peter Jackson, dipende a chi lo chiedete) e persino lui, il più commerciale e vicino ai film di genere dei three amigos, si era ripulito e aveva vinto un Oscar.

Insomma, per Hellboy III non c’erano i soldi, diceva del Toro, ma c’era la voglia di portare a compimento il viaggio del demone. Poi, oltre ai soldi, è venuto meno anche l’entusiasmo. Nel 2017, del Toro sondò nuovamente il terreno per capire se l’interesse dei fan fosse ancora vivo. Promise che avrebbe parlato con Mignola e Perlman e dopo un mese tornò con il verdetto: «Ho parlato con tutte le pari coinvolte. Il sequel non si farà e questa è la decisione definitiva. Ora Hellboy potrebbe muoversi in altre direzioni. Sono affranto, ma non fa per me».

Dato che le idee di del Toro erano troppo dispendiose, Mignola aveva proposto una nuova sceneggiatura con cui però del Toro «non voleva avere niente a che fare». Intervistato da Le Figaro Mignola si lamentò con il cineasta di aver portato il pubblico dalla sua parte. «Gli dissi che aveva il mio numero, non doveva passare per l’internet. Siamo andati in direzioni diverse, non vedo l’ora di vedere cosa combinerà in futuro, ma non credo collaboreremo insieme».

Le dichiarazioni di Mignola durante il tour promozionale per il nuovo Hellboy non lasciano tanto margine di dubbio: «Sono due grandi film ma non rispecchiano davvero quello che è il personaggio nei miei fumetti», ha spiegato a Luca Raffaelli su Il venerdì. «D’altra parte ero stato proprio io a dirgli: fai quello che ti senti di fare. Nei film ho trovato qualcosa che mi rendeva felice e cose invece che non mi piacevano per niente».

Insomma, i film saranno anche stati terreno di del Toro, ma a un certo punto Mignola deve aver capito che l’Hellboy cinematografico era quello destinato a rimanere impresso nella memoria collettiva. E, dato che era così diverso dalla sua controparte fumettistica, il disegnatore avrà voluto correggere la rotta e riportare entrambi i mondi su un unico binario.

Dati gli illustri precedenti, fa ancora più male vedere che il terzo film di Hellboy resterà nella memoria come un macello produttivo definito «uno dei peggiori adattamenti fumettistici di sempre», invece che la conclusione di quella che aveva il potenziale per diventare una delle migliori trilogie del cinema. Tocca fare l’opposto di quello che ci dicono i film di del Toro: guardarsi indietro e consolarsi con ciò che è stato.

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