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Sunday Page: Alberto Lavoradori su “Mort Cinder”

Ogni settimana su Sunday Page un autore o un critico ci spiega una tavola a cui è particolarmente legato o che lo ha colpito per motivi tecnici, artistici o emotivi. Le conversazioni possono divagare nelle acque aperte del fumetto, ma parte tutto dalla stessa domanda: «Se ora ti chiedessi di indicare una pagina che ami di un fumetto, quale sceglieresti e perché?».

Questa domenica ospitiamo Alberto Lavoradori, disegnatore noto per aver partecipato alla creazione di PK, di cui ha disegnato il primo numero. Definito da Alberto Brambilla «il meno disneyano dei disneyani», Lavoradori esordisce in Disney nel 1990, dopo aver frequentato lo studio di Paolo Ongaro ed essere stato inserito in un vivaio di disegnatori che facevano capo a Giovan Battista Carpi. Influenzato dal tratto di Giorgio Cavazzano, matura uno stile particolarissimo fatto di geometrie e stilizzazioni estreme. All’attività disneyana alterna progetti personali come i lavori di fantascienza Gommo (2010) e Stirpi (2012) e il romanzo Dry Sound (2018).

Invece delle analisi ho preferito immaginare Breccia e Oesterheld al lavoro. Questa è un’ipotesi. Un innocente divertissement. La storia non è andata certamente così. Tuttavia, non so se per merito di Breccia o di Oesterheld (più verosimilmente per merito di tutti e due), questa scansione è di una modernità assoluta. Un gioiello datato 1963. E tutto il superbo lavoro di questi due autori è costellato di queste finezze. Non ci sono prove, e questa è solo una mia ipotesi, ma per luci, dramma e pathos, me li immagino attenti divoratori della cinematografia di Murnau, Lubitsch e Lang. Fino al più moderno Hitchcock. La tavola presa in considerazione è la n. 2, tratta dall’episodio di Mort Cinder Nel penitenziario che integra (come per il precedente), un sottotitolo, Il frate.

La scansione della pagina è tratta dal volume dell’Imago Libri. Edizione del 1978. Tranne alcune tavole iniziali di Gli uomini dagli occhi di piombo, gli originali di Mort Cinder sono di formato gigantesco; 52,5×39 cm (in tre strisce). Nelle edizioni europee le storie erano sempre rimontate e riadattate (come in questa edizione).

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Buenos Aires, 1963. Breccia osserva dalla finestra del suo studio, il poggiolo e le fronde degli alberi sporcate dal vento. Ha passato una notte insonne. Carta, inchiostri, monete, guarnizioni di gomma, e colle, quella mattina, sono senza motore. Tutto langue. Tutto è piantato. Alberto è torturato da un’idea. Afferra il telefono e compone un numero. Dopo parecchi trilli la cornetta è finalmente sollevata.

«Ciao Héctor!»

«Alberto, ma è prestissimo! Così mi svegli le bambine. Abbiamo sudato sette camice per farle addormentare. Ma che succede?»

«Scusa, dovevo chiamati. Non ho dormito. Per via di Mort. Sai come faccio, disegno la tavola, lascio riposare e poi la ripasso il giorno dopo. Ma questa mattina ho un chiodo, ed è piantato al centro del mio tavolo.»

«Sarebbe?»

«Pagina due. L’episodio El Frate.»

«Sì, allora?»

«Ho dubbi. Oh, non mi fraintendere, il dialogo è poesia, condensato di splendida liricità, ma la descrizione della cella d’isolamento senza i topi, la ciotola di cibo miserrimo, il volo dei gabbiani, i semi primaverili sparsi al vento e poi la ragazza nuda con i capelli ingioiellati di spuma… perdona la sincerità, è banale. Descrizioni scariche. Vignette scariche. Guarda, ho qui sotto il naso la pagina, l’ho disegnata, ma è rachitica. Sembra un fotoromanzo. Non ha l’intensità richiesta. Non c’è dramma. Non c’è la segregazione. Non c’è sugo.»

«Ho capito. Racconta male.»

«Bravo. Colpa mia, eh! Ma la descrizione non aiuta.»

«Perciò?»

«Ho un’idea e se sei d’accordo vorrei proportela.»

«Va bene, fai uno schizzo. E intanto lavora a pagina tre. Poi nel primo pomeriggio vengo a trovarti e ne parliamo.»

«Grazie. Ti aspetto.»

«A dopo.»

Spunto, orientamento e schizzo veloce. Breccia ha un’idea semplice per rendere un personaggio ‘veramente’ divorato dall’isolamento. Ripeterlo. Ripeterlo. Ripeterlo e ancora Ripeterlo. Algido e nella stessa posizione. Per quattro volte. E sulla pelle, e sui vestiti e sullo sguardo, annota, fianco lo schizzo, la necessità di un diverso espediente. Un tessuto fatto di tempi. Effetti. Pensieri. E con la matita accenna ombre e velature e aggiunge qualche nota scritta. Poi la meditazione è spezzata. Alberto piega il collo. È il campanello di casa. Quello non può essere che Héctor.

«Ciao, puntualissimo! Ci facciamo un Mate?»

«Magari Alberto, sono di fretta, tra un’ora devo passare da mia suocera a prendere Beatriz e Diana.»

«Ahahah, non t’invidio, quelle due ragazzine sono argento vivo.»

«Eh, lo so.»

«Senti se hai fretta andiamo al sodo. Vedi il mio tavolo da disegno?»

«Certo.»

«Vedi che fuma?»

«Alberto, sei tu che fumi. L’intensità non può essere un fattore insaziabile. Inestinguibile. Dai, non dormire per una pagina di fumetto e chiamarmi alle sette di mattina è anormale! Dimmi, a te pesa ancora quella frase detta da Hugo. Vero? Vos sos una puta barata, porque estàs haciendo mierda pudiendo hacer algo mejor! [frase di Hugo Pratt riportata nella prefazione Alla ricerca di Mort Cinder di Beppi Zancan del tascabile Gli uomini dagli occhi di piombo].»

Ero là quando te lo ha detto. Avevi la faccia di vetro.»

«Beh, Hugo è Hugo.»

«Poteva fregarsene di te e del tuo modo di lavorare. Invece credimi, ti ha fatto il più grande dono possibile.»

«In effetti mi ha scosso. Però adesso ti faccio vedere cosa ho in mente.»

«Dai, meglio. Che se ritardo poi mia suocera ulula.»

Alberto e Héctor ignorano la finestra dello studio, il poggiolo e le fronde degli alberi sporcate dal vento. Alberto e Héctor osservano invece la pagina due del secondo episodio ambientato nel penitenziario. È una matita completa. Poi osservano lo schizzo rapido, la versione alternativa. Note accluse. Silenzio. Héctor siede sullo sgabello di Alberto, alterna lo sguardo. Paragona il definitivo e lo schizzo. E pensa. E pensa. Entra nel meccanismo della ripetitività. E poi con un leggero sbotto rompe la tensione.

«Perciò, se ho ben capito, ripeteresti Mort più volte. L’inquadratura resterebbe fissa, mentre ombre, luci e dettagli muterebbero in funzione dell’emozione interna.»

«Vedo che hai afferrato. Voglio poggiare una pellicola d’effetti mirati, giusto sopra il dramma e la fissità della detenzione.»

«E i testi resterebbero identici.»

«Esatto, Héctor. E i testi resterebbero quelli.»

«Alberto, mi piace!»

«E infine c’è la quinta vignetta. L’urlo. L’urlo del personaggio “Greta”, che è in fuori campo. Proviene dalla cella d’isolamento confinante. E qui voglio rispettare la tua versione originale; la secca onomatopea immersa nel buio.»

«No!»

«No?»

«Artista, hai iniziato stravolgendo tutto. Chiudi con la tua idea. Giusto?»

«Cioè?»

«Deve esserci ancora Mort! Lui! Ma in una posizione diversa. Una vignetta in grado di spezzare il ritmo. Contraria. Direi di nero incanto.»

«Non ci avevo pensato.»

«Spezzeresti il dramma con nuovo livello di dramma.»

«Héctor, avresti voglia di scriverla tu? Mi sembra corretto. Questa è la tua parte d’esagerazione. Due righe per capire, per avere il giusto equilibrio.»

«Sì. Va bene…»

«Io allora lavoro alle prime quattro vignette e proseguo con pagina tre.»

«Va bene Alberto. Dai pure sfogo alla tua insaziabile voglia d’eccedere. Io però adesso scappo! È tardi! Vado a prendere le bambine. Domani ti porto la descrizione.»

«Ciao Héctor!»

«Buena suerte, Ezra!»

Leggi anche: 100 anni di Alberto Breccia

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