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MangaL'autobiografia a fumetti dell'autore di "Pollon", tra alcolismo e vagabondaggio

L’autobiografia a fumetti dell’autore di “Pollon”, tra alcolismo e vagabondaggio

Come è noto, negli ultimi vent’anni il fumetto è diventato uno dei veicoli privilegiati – se non addirittura IL mezzo privilegiato – del racconto biografico e, soprattutto, autobiografico. All’interno del filone autobiografico, in Giappone, per lo meno dai primi anni Sessanta, cioè quando il manga era già diventato un business florido, si è sviluppata una precisa nicchia: l’autofiction degli/sugli autori di manga.

diario scomparsa hideo azuma

Infatti, se in Occidente le autobiografie incentrate sul mestiere del fumettista non sono poi troppo numerose, in Giappone costituiscono quasi un capitolo a sé. Un filone cui neanche il prolifico Osamu Tezuka si è sottratto, pur mascherandosi sotto il trasparente pseudonimo di Ohsamu Tezuro. E il successo di molti di questi è testimoniato, oltre che dai premi e dai dati di vendita, dal recente fenomeno cinematografico dei mangakamono, film che spesso adattano, appunto, le biografie dei mangaka.

Queste opere, soprattutto quelle create intorno agli anni Sessanta/Settanta del secolo scorso o che comunque a quel periodo si riferiscono (Mangaka no Zankoku Monogatari, Manga Michi, Una vita tra i margini ecc.) sono costruite intorno a un’epica simile, che potremmo schematizzare così:

  • uno o più ragazzi cresciuti nel sogno di diventare fumettisti
  • magari con qualche piccolo lavoro già pubblicato, grazie a concorsi o a collaborazioni a distanza
  • si trasferiscono dalla campagna o dalla provincia nella “grande città” e capitale dell’editoria: Tokyo
  • attraversano quindi tutta la trafila – spesso molto dura – che li porta ad essere assistenti di un maestro, come inchiostratori, rifinitori o realizzatori di sfondi
  • e arrivano a debuttare “firmando” il proprio lavoro e, infine, ad affermarsi come autori.

Il tutto è spesso raccontato con uno stile felicemente oscillante fra racconto umoristico e cruda cronistoria. Vite, quelle raccontate da chi le ha vissute, spesso al limite, costrette tra orari impossibili, consegne pressanti e la promessa di un successo che arriderà a pochi. E se anche questo successo si materializzerà, non costituirà comunque garanzia di una vita agiata. Né serena.

diario scomparsa hideo azuma

Hideo Azuma non si è sottratto a questo percorso così tipico nella carriera di un mangaka. Nato nella prefettura di Hokkaidō nel 1950, si trasferisce a Tokyo, diventa assistente di Rentarō Itai nel 1968 diventando un autore professionista nel 1969. La sua scalata al successo, caratterizzata dall’iperproduttività e dalla facilità con cui si muove fra i generi, raggiunge l’apice tra la metà degli anni Settanta e la fine degli Ottanta, grazie al passaggio ai manga erotici e all’invenzione di serie di particolare successo, alcune note anche da noi soprattutto grazie agli adattamenti in serie animate, come Pollon e Nana Supergirl. Poi, nel novembre del 1989 abbandona lavoro, moglie e figli e…scompare.

Da qui parte la storia raccontata nel suo Il diario della mia scomparsa, recentemente tradotto in italiano da J-Pop Manga. Per raccontare una vicenda di profonda crisi personale, alcolismo, vagabondaggi e ricostruzione della propria identità, Azuma non rinuncia allo stile che lo ha reso famoso. Un tratto fatto di poche linee chiuse e tondeggianti, iconiche e ricorrenti fisionomie, mimica spesso iperbolica, sfondi appena accennati, il movimento reso attraverso sintetici momenti di sospensione statica. Del resto la dichiarazione di poetica è esplicita. Nella prima vignetta l’alter ego fumettistico dell’autore afferma: «Questo manga si sforza di avere una visione positiva di tutta la faccenda. Quindi ho evitato il più possibile i disegni realistici.» Per poi subito dopo aggiungere: «Perché sono difficili da fare e in più rendono tutto triste.»

Sul contrasto fra un disegno e uno stile narrativo non solo esplicitamente umoristico ma anche, per via della somiglianza con le precedenti opere dell’autore, riconoscibile immediatamente come tale, e una vicenda che pur non mancando di momenti leggeri se non addirittura lirici, è a tutti gli effetti una tragica discesa all’inferno, Azuma costruisce questo suo intimo spaccato di vita.

diario scomparsa hideo azuma

Senza svelare troppo della trama, possiamo dire che la fuga, anzi, le fughe ripetute di Azuma lo porteranno prima a vivere da senzatetto, poi a una parziale ricostruzione della propria identità personale e professionale e infine, passando attraverso gli stadi finali dell’alcolismo e il rischio di morte, a un percorso di recupero assistito in un centro per le tossicodipendenze.

L’autore, nelle primissime pagine dell’opera, non si concentra immediatamente sulle motivazioni che lo hanno portato ad abbandonare quella vita che da ragazzo vedeva come la propria realizzazione massima. Dopo una brevissima introduzione, ci catapulta immediatamente, probabilmente con la stessa velocità in cui egli stesso vi è stato precipitato, nella sua nuova esistenza da senzatetto. L’unica giustificazione parziale all’atto è racchiusa in una didascalia della prima pagina: «non mi andava di lavorare e la sera prima mi ero anche ubriacato». Dopo un tentativo di suicidio, comico e tragico allo stesso tempo, Azuma comincia a vivere nei boschi ai margini della città.

Inizia qui il vero e proprio diario, che in questa parte è una cronistoria dei suoi tentativi di adattarsi alla nuova vita, degli stratagemmi da imparare per sopravvivere, delle osservazioni fatte dall’inedita, e per certi versi invidiabile, posizione di “invisibile”. Anche se capace di apprezzare la bellezza – soprattutto quando i rifiuti offrono inaspettate gemme culinarie: questo è un manga molto incentrato sui sensi, e il godimento del cibo è uno degli aspetti che rende più intensamente partecipe il lettore – raramente l’autore esce dal suo ruolo di osservatore di se stesso per esprimere un giudizio su quanto gli capita di osservare, per quanto intenso o bizzarro possa essere.

Il personaggio fatto di inchiostro vive e soffre, ma l’autore, che è e che è stato il personaggio stesso, raramente calca la mano sulla sofferenza, o sulla vergogna, o sulla rabbia, in parte probabilmente perché questa indifferenza rifletteva lo stato psicologico di Azuma all’epoca dei fatti. Tutte queste sensazioni sono presenti, ma nessuna prende il sopravvento sulle altre. Il tempo, breve, di consumare l’evento che le ha provocate e il racconto continua.

Il distacco del narratore, che pure a volte si confonde maggiormente con il suo io narrato, quando ad esempio vengono ricordati episodi del passato di Azuma, riesce a rendere credibile e coinvolgente questa cronistoria, non solo perché la svuota da qualsivoglia epica ma anche perché è il carburante che serve ad innescare i momenti umoristici. Ogni cosa, in questo libro, accade apparentemente senza motivazione cosciente ma per necessità, sia che si tratti di scappare da un lavoro che sta mandando Azuma fuori di testa, sia la costruzione di un fornelletto da campo improvvisato. La sopravvivenza, naturalmente, anche quando non volontariamente ricercata (il tentativo di suicidio, il ricovero coatto da parte dei famigliari) è il filo rosso che porta avanti sia la storia sia, fisicamente, protagonista e autore.

Il disegno nei fumetti, senza entrare nel merito della valutazione delle singole opere autobiografiche, permette la ricerca di un effetto che nel corrispondente letterario è molto più difficile ottenere. Il segno, il tratto, sdoppia il racconto e così sdoppia l’Io che racconta. A volte questo “sdoppiamento” lavora in senso antitetico: da una parte c’è la storia raccontata dalle parole, nei balloon e nelle didascalie, dall’altra quella raccontata dai disegni.

In questo Diario ciò non accade, per lo meno in maniera così esplicita. Ma è evidente, ed evidentemente dichiarato, che lo straniamento fra una storia dalle ripercussioni potenzialmente così tragiche e un tratto che siamo abituati ad associare ad atmosfere di ben altra natura, ci pone in una condizione inizialmente difficile. Eppure, superato l’iniziale spaesamento, diventa immediatamente chiaro che questa è la scelta giusta.

Un disegno più realistico, apparentemente più al servizio della storia – così come una narrazione che avesse calcato di più la mano sugli snodi fondamentali invece che su quelle minuzie quotidiane tanto importanti – ci avrebbe in un certo senso estromessi, partecipi magari, ma non coinvolti. Lo stile di Azuma, invece, per noi così familiare, ci permette di abbandonarci al racconto e immedesimarci nel suo tragico passato, grazie anche a un ritmo lento, cadenzato, che riflette la casualità e l’insensatezza delle nostre stesse vite.

Il diario della mia scomparsa
di Hideo Azuma
traduzione di Carlotta Spiga
J-Pop, maggio 2019
brossurato, 212 pp., bianco e nero
12,90 €

Leggi anche:
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