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Il Flash Gordon di Mike Hodges, o lʼestetica contraddittoria di un capolavoro osceno

di Emiliano Chirchiano*

Esiste una categoria di film che, per motivi di budget o di natura rigorosamente opportunistica, si distacca dallʼestetica comune: sono quelli che vengono, nel gergo comune, definiti B-movies. La “B” è indice spesso di scarsa qualità o di scarso budget, ma – quando questa definizione nacque negli Stati Uniti dʼAmerica – serviva più che altro a indicare lʼordine di proiezione, esattamente come accade con i due lati dei dischi in vinile, per gli spettacoli double feature, in cui con un solo biglietto si poteva assistere a due proiezioni differenti: un espediente creato per combattere il calo di spettatori nelle sale nei primi anni Trenta. Una nicchia di mercato che ha permesso al cinema di genere (per esempio horror, western e noir) di proliferare e allʼindustria cinematografica di ottimizzare i propri processi produttivi, riciclando costumi e scenografie da produzioni più costose.

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La copertina del volume Flash Gordon. L’avventurosa meraviglia: mito, immaginario e media, pubblicato da NPE, da cui è tratto questo articolo

Molti cineasti, tra cui Quentin Tarantino o John Carpenter, sono cresciuti sviluppando la loro fantasia creativa attraverso queste opere che, nel corso degli anni, hanno ottenuto una visibilità via via crescente. Prendere parte al cast dei B-movies è stata una valida palestra per future star come John Wayne o Jack Nicholson. A questa categoria di film oggi viene riconosciuto lo status di cult movie non (sempre) per la qualità espressa, quanto per la loro importanza sociale: il basso costo, in unʼepoca in cui quella cinematografica era ancora unʼindustria i cui mezzi produttivi non erano alla portata di tutti, come nella nostra realtà post-industriale, permetteva di valicare frontiere difficilmente percorribili dalla necessità di rientro degli investimenti delle grandi produzioni.

Questa digressione iniziale, a una prima lettura, può sembrare fuori luogo visto il film a cui facciamo riferimento in questo contributo: quel Flash Gordon (1980), prodotto da Dino De Laurentiis con la regia di Mike Hodges, che – almeno per gli sforzi produttivi e i capitali investiti – è tuttʼaltro che un B-movie. Lʼestetica scelta, la libertà con cui si muove, la sfrontatezza con cui non aspira al fotorealismo ma si abbandona alla fantasia del pubblico, libero da ogni tentativo di verosimiglianza e di irreggimentazione allʼinterno delle convenzioni culturali, gli permettono di essere annoverato in questa gloriosa categoria, a torto bistrattata, che tanto ha dato allʼindustria cinematografica e alla creazione del suo multiforme immaginario.

Flash Gordon, con i suoi mondi polimorfi e metastorici, è un personaggio che affonda le sue radici nella grande tradizione del fumetto fantastico e dʼavventura. Creato da Alex Raymond come risposta della King Features al popolarissimo Buck Rogers (con il quale vive in un rapporto di reciproco scambio di influenze artistiche e narrative), è terreno fertilissimo per la nascita di alcune delle narrazioni più importanti della pop culture del ventesimo secolo.

È un proto-supereroe che, grazie alle sue avventure spaziali, ha plasmato lʼimmaginario dei propri lettori rendendo “possibili” viaggi interplanetari alla conquista di pianeti ignoti, permettendo unʼevasione necessaria alla stringente morsa economica della Grande Depressione. La disinvolta commistione di epoche e stili di Flash Gordon anticipa quella che sarà lʼestetica postmoderna.

George Lucas, nel 1977, con la realizzazione del primo Guerre stellari (Star Wars) attinge a piene mani da questo tipo di immaginario chimerico, dove alla magia viene sostituita la tecnologia – per sua stessa ammissione il suo primo obiettivo era proprio creare un lungometraggio basato sul serial cinematografico degli anni Trenta – come sostiene Renato Giovannoli: «Cʼè anzi da supporre che il segreto della fortuna di Guerre stellari risieda proprio nel suo essere, secondo il modello costituito dal fumetto di Raymond, una narrazione dʼavventura in cui il fantastico tecnologico non può fare a meno dei topoi del romanzo cavalleresco e di una geografia mitica popolata da esseri favolosi».

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Lʼopera di Hodges, che giunge sugli schermi cinematografici tre anni dopo il successo mondiale di Guerre stellari, punta a unʼestetica e una narrazione che non hanno alcuna intenzione di discostarsi da quella del fumetto, grazie anche alla sceneggiatura di Lorenzo Semple Jr., che aveva fatto unʼoperazione simile con la serie tv dedicata a Batman negli anni Sessanta. Flash Gordon è un prodotto nato per esaltare la fantasmagoria cinematografica: viaggi intergalattici di un eroe bello, forte e giusto che

incarna lo stadio di un immaginario audiovisivo nel pieno del suo delirio di potenza; […] tiene depositati nelle sue incoscienze, nel dispiegamento delle sue caratteristiche atletiche, tutti i meccanismi di una fase propulsiva della cultura di massa degli anni Trenta […] una cultura che a pieno titolo aspira ad essere seduttiva e, per giunta vi riesce in modo egregio. [G. Frezza, Fumetti, anime del visibile, cit., p. 136]

Un combattente prode che mostra una leggera consistenza «tipica di un personaggio proveniente da un passato senza peso», pronto a salvare il proprio pianeta ma anche la sua damigella, continuamente messo in pericolo dalle tentazioni del pianeta Mongo e dalle sue affascinanti, aliene concubine. Di contro, un nemico assoluto, il perfido imperatore Ming, dalle fattezze orientali (figlie di quel “terrore giallo” che riassumeva semplicisticamente stereotipi razzisti e colonialisti) che distrugge pianeti per noia, scatenando catastrofi naturali con la semplice pressione di un pulsante della sua tastiera.

Nonostante la sua storia tribolata sul grande schermo, Flash Gordon (il fumetto) ha cristallizzato un ideale eroico per molti decenni a seguire. I personaggi che gli sono succeduti si sono appropriati di molti dei suoi elementi fondativi – basti guardare allʼinversione delle dinamiche della genesi operate da Jerry Siegel e Joe Shuster per il loro Superman, con lʼeroe, questa volta, alieno sul nostro pianeta – o a celeberrimi personaggi della serialità televisiva come il capitano Kirk di Star Trek, con il suo carattere irruento e il fascino irresistibile per le piacenti aliene dallʼaspetto antropomorfo, proprio come il nostro Flash.

A differenza di Lucas, De Laurentiis riesce ad accaparrarsi i diritti per una trasposizione cinematografica di Flash Gordon. Lo fa proprio sullʼonda del successo del capolavoro del cineasta statunitense. Il produttore italiano ha intenzione di fare le cose in grande, cercando di coinvolgere addirittura Federico Fellini alla regia, da sempre fan dei fumetti di Raymond, come dichiara a Keel e Strich

Quando iniziammo a leggere delle stupefacenti avventure di questo eroe galattico, il fascismo era al suo apice, la sua triste, cupa retorica, si allargava a macchia dʼolio. Dʼaltronde, Flash Gordon è apparso sin dallʼinizio come un eroe imbattibile, legato alla realtà, sebbene le sue azioni si svolgessero in mondi lontani e fantastici. [A. Keel – C. Strich (eds.), Fellini on Fellini, Methuen, London 1976, p. 140].

Fellini, però, rinunciò al progetto di trasporre cinematograficamente il fumetto, avendo già declinato parte dellʼimmaginario raymondiano nel suo Satyricon (1969). Come dicevamo, il film attraversò un processo di genesi turbolenta, venendo affidato in prima battuta a Nicolas Roeg, regista di capolavori come Lʼuomo che cadde sulla Terra (The Man Who Fell to Earth, 1976) e Lʼinizio del cammino (Walkabout, 1971) e indimenticato direttore della fotografia di Fahrenheit 451 (1966) di François Truffaut; un regista dalla forte vena autoriale e dal taglio forse eccessivamente esistenziale per portare sullo schermo un Flash Gordon coerente con le sue origini.

Le distanze con De Laurentiis aumentarono, sia per divergenze creative che economiche, fino al divorzio dopo quasi un anno di lavorazione. Se la prima scelta registica poté sembrare azzardata, la seconda non fu da meno: il film fu affidato a Michael Hodges, un ex regista televisivo i cui lavori precedenti non sembravano adatti al nuovo script, così appariscente, pop e ricco di effetti speciali. Per il ruolo di protagonista, non potendo arrivare alle prime scelte Kurt Russell e Arnold Schwarzenegger (entrambi declinarono lʼofferta), fu selezionato il ben più modesto e semisconosciuto Sam Jones.

Il film fu girato in diciassette settimane, ma richiese ben quattordici settimane di lavorazione supplementare. Senza addentrarci ulteriormente nei dettagli della complessa lavorazione cinematografica, il quadro che emerge è completo: il film sembrava avviato verso un destino disastroso. Non fu così, almeno non al botteghino e nemmeno per tutta la critica. Forse anche per il colpo di genio del produttore De Laurentiis di ingaggiare i Queen per scriverne lʼimmortale colonna sonora. Il film, lungo circa due ore, risulta intenso e coinvolgente, popolato da un cast di antagonisti e comprimari di assoluto rispetto (tra gli altri Timothy Dalton, Topol, Brian Blessed, Richard OʼBrien), nel quale spicca, nei panni del crudele Imperatore Ming, un magnifico Max von Sydow.

Flash Gordon, il film, non sembra volersi mai prendere troppo sul serio. Non è più sofisticato di quanto lo fossero i fumetti originali: è la realizzazione cinematografica più fedele di una space opera, unʼepica spaziale, come quelle di Edgar Rice Burroughs; mix completo di melodramma, avventura fantastica, viaggi interstellari e battaglie spaziali. A differenza di Guerre stellari, i suoi effetti speciali sembrano volontariamente distaccarsi dal fotorealismo con una cifra stilistica tipica delle produzioni a basso costo.

Mentre le miniature utilizzate in Guerre stellari per simulare pianeti e città fluttuanti nel cielo si sforzano di sembrare vere, quelle di Flash Gordon sembrano sforzarsi esattamente del contrario, mostrandosi evidentemente come trucchi cinematografici, portando alla memoria più che la Death Star che incombe nei cieli immaginati da George Lucas, lʼastronave che colpisce la luna in Viaggio nella Luna (Le Voyage dans la lune, 1902) di George Méliès. Lʼobiettivo di restare fedele allo spirito del fumetto, rispettando la sua fantasmagoria, senza stravolgimenti, è pienamente centrato.

Se già il fumetto, come sottolinea Gino Frezza, mette al centro «lo scenario erotico dellʼimmagine», non deve stupirci se, qualche anno prima di De Laurentiis, qualcuno ha provato a trasporlo in un adattamento parodistico ad alto tasso erotico, come Flesh Gordon – Andata e ritorno dal pianeta porno (Flesh Gordon) di Michael Benveniste e Howard Ziehm, dove il typo del nome del protagonista non richiede ulteriori spiegazioni. Caratterizzazione erotica, dicevamo, che contribuisce a ridefinire i nuovi territori dellʼerotismo di massa «tra artificio e biologia ma anche tra passato e presente delle arti figurative».

Non ci sorprende che, da un fumetto in cui «la contaminazione tra sogno e pubblicità […] o la mescolanza tra compostezza delle pose figurali e trascendenza dei corpi che suggeriscono un erotismo risiedente in un altrove» sia stato possibile trarre uno spoof movie, che potremmo definire antesignano del porno pop, genere che rilegge in chiave porno opere fondamentali della pop culture, di cui forse il maggior esponente oggi è il regista italiano Axel Braun, specializzato in porno parodie tratte dai franchise più famosi dei comics americani.

Flesh Gordon (1974) resta un divertente e ironico soft-core, che gioca con i nomi e i corpi dei protagonisti, incluso uno spaventoso “penisauro”. Senza arrivare a questi estremi, anche il film di Hodges gioca con lʼerotismo dei suoi protagonisti, con lo sfiorarsi dei loro corpi, dei muscoli guizzanti di Flash e dal fascino della principessa Aura – interpretata da una splendida Ornella Muti – che fa del sex appeal un punto di forza per manipolare chiunque si opponga al suo volere.

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A quarantʼanni dalla sua uscita cinematografica – e a ottanta dal suo esordio a fumetti – lʼinfluenza di Flash Gordon non risulta scalfita. Ciclicamente si parla di uno suo ritorno, sia sugli schermi cinematografici che su quelli “serializzati e frammentati” che caratterizzano oggi la frontiera più avanzata di ogni narrazione. Lʼinfluenza del personaggio di Raymond e della sua trasposizione cinematografica è ancora forte; quel film patinato e esageratamente kitsch ha raggiunto lo status di cult movie: «So bad, but so good» (“così brutto da essere bello”) come recita il personaggio di Mark Walberg in Ted (2012), di Seth MacFarlane.

Senza Flash Gordon, come dicevamo, non sarebbe esistito lʼuniverso di Guerre stellari o i giocattoli, prodotti della Mattel, della serie “Masters of the Universe” – che hanno caratterizzato unʼintera generazione, quella dei nati negli anni Ottanta – il cui universo ricorda molto da vicino lʼeroe biondo e muscoloso, nel suo mondo galattico condito da elementi tecnomagici.

Senza Flash Gordon non esisterebbe un intero ramo dellʼuniverso Marvel, basato su viaggi interstellari in futuri remoti, popolato da personaggi terrestri catapultati in galassie lontane: come Starlord che è a capo dellʼimprobabile gruppo di supereroi protagonisti dei film Guardiani della Galassia (Guardians of the Galaxy, 2014, di James Gunn) e Guardiani della Galassia Vol. 2 (Guardians of the Galaxy Vol. 2, 2017, di James Gunn).

A questo punto ci è più facile comprendere, come sottolineavamo allʼinizio di questo contributo, lʼimportanza dellʼestetica B-movie. Guardiani della Galassia è un film diretto – con una scelta, da parte della Marvel, che dimostra coraggio e sensibilità artistica – da James Gunn: un regista di rigorosa scuola Troma, casa di produzione specializzata in film di genere a basso costo.

Contro ogni previsione, Guardiani della Galassia, con un budget di medie dimensioni, è stata la grande sorpresa del Marvel Cinematic Universe e forse uno dei film più amati dal pubblico: una nuova space opera, con storie dʼamore aliene, villain capaci di distruggere interi pianeti o essere interi pianeti, e un gruppo di eroi – semisconosciuti al grande pubblico, a differenza dei ben più noti Avengers, solo per fare un esempio allʼinterno dello stesso universo cinematografico – in cui il pubblico può gloriosamente identificarsi, proprio perché scevri dalla vanagloria di comportamenti militareschi o falsamente virili.

Comprendiamo anche perché Flash Gordon non è tornato a occupare il posto che meriterebbe sullo schermo o perché i suoi remake sono spesso annunciati e poi ritirati: poiché, come tutte le opere seminali, non è stato mai del tutto accantonato. Anche se remake e sequel dominano il panorama delle narrazioni transmediali, anche se i film invecchiano e con essi parte del loro pubblico, non si sente la necessità di rimediare ancora una volta il fumetto di Alex Raymond, perché la sua eredità è ancora ben presente, attualissima, nella nostra pop culture che vive di citazioni, «suite su schemi fissi con inserimento di melodie popolari già note».

*Questo articolo è estratto dal libro Flash Gordon. L’avventurosa meraviglia: mito, immaginario e media, a cura di Mario Trino, pubblicato da NPE.

Leggi anche: Ritorno sul pianeta Mongo. Con Flash Gordon, il ‘classico’ di Alex Raymond

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