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FocusIntervisteDanijel Žeželj e la distopia di “Days of Hate”

Danijel Žeželj e la distopia di “Days of Hate”

Days of Hate, la serie più recente disegnata del fumettista di origini croate Danijel Žeželj (per i testi di Ales Kot) e pubblicata in Italia da Eris Edizioni, racconta un’America piegata da un regime simil dittatoriale di estrema destra. In questo scenario, un ristretto gruppo di attivisti resiste cercando di combattere un potente esponente del governo.

Žeželj e Kot, con forte consapevolezza politica e sociale, hanno realizzato un’opera che non esita a prendere posizione contro certe tendenze alt-right contemporanee, illustrando un futuro prossimo distopico ma tristemente simile al presente. Abbiamo parlato di Days of Hate – per noi una delle migliori serie uscite in Italia nel 2019 – con lo stesso Žeželj, affrontando anche in generale quello che è il suo approccio al lavoro di fumettista e la sua visione della società contemporanea.

Days of Hate intervista Zezelj Kot Eris Edizioni

In un certo senso, Days of Hate è un passo coerente nel tuo percorso artistico fatto di lavori dalla grande consapevolezza sociale, basti guardare anche a Babilon, nel quale gentrificazione e differenze di classe sono centrali. Come è nato inizialmente il progetto?

Prima di lavorare a Days of Hate non conoscevo Ales di persona. Mi inviò il soggetto qualcosa come dieci anni fa, ma non ci lavorammo subito. Non ero nemmeno sicuro che quel soggetto fosse pensato per diventare un fumetto. In seguito ebbi modo di vedere gli altri suoi libri, e alcuni anni fa siamo rientrati in contatto, pensando di produrre qualcosa insieme. All’inizio buttammo giù varie idee, ma poi ci trovammo d’accordo su raccontare qualcosa che avesse a che fare con la situazione politica di quel momento, dell’America in particolare. Era un soggetto che interessava molto a entrambi.

Quindi è stato un lavoro del tutto collaborativo.

Proprio così, molto collaborativo. L’idea all’inizio era proprio quella di fare qualcosa di legato alla politica. Dopo, abbiamo capito che Image Comics l’avrebbe pubblicato. Non sapevamo subito quanti numeri sarebbero stati. In un primo momento pensavamo otto, poi sono diventati dodici.

Hai avuto difficoltà a lavorare a una storia così schierata?

No, non ci sono state ingerenze esterne di alcun tipo da parte dell’editore.

Days of Hate intervista Zezelj Kot Eris Edizioni

Il contesto adesso è sempre più degenerato ovunque, con estremismi politici che prendono campo nei governi. Quando lavoravate al fumetto avete visto somiglianze con la realtà o ne avete inserite man mano per essere sempre più attuali?

Mi sembra di ricordare che abbiamo iniziato più o meno quando Donald Trump è diventato presidente. Sia io che Ales siamo immigrati negli Stati Uniti dall’Europa, quindi il nostro punto di vista è sempre stato un po’ distaccato e diverso da quello degli altri. Tutti quei cambiamenti che ora sembrano così evidenti erano presenti nella società già da molto tempo.

Quando abbiamo iniziato, il ritmo di pubblicazione era di un albo al mese, e anche i miei tempi di lavorazione erano di un albo al mese, dal momento che ogni trenta giorni ricevevo la sceneggiatura per un numero.

Ma ci sono stati sviluppi nella realtà che hanno spinto Kot a dei cambiamenti rispetto alla sua idea iniziale, per essere più incisivo?

Non lo so se ci siano stati cambi in corso di scrittura. Ma ne dubito perché, come ti dicevo, i problemi fondamentalmente già c’erano, il punto stava nell’inquadrarli bene. Purtroppo spesso le persone scelgono di non vedere certe cose che succedono attorno a loro.

Avete raccontato un futuro piuttosto vicino al nostro presente, e sembra che tu abbia distorto la nostra realtà solo leggermente ma con molta attenzione ai particolari. Come hai sviluppato l’immaginario visivo della storia?

È un futuro davvero prossimo al nostro. Non ho distorto molto. L’immaginario visivo è basato sull’America contemporanea, filtrata però attraverso la mia personale esperienza, in riferimento a dove ho vissuto o a ciò che ho visto viaggiando. Di per sé gli Stati Uniti sono un Paese bellissimo. Ma ci sono luoghi rovinati dallo sviluppo e dall’industrializzazione. Abbiamo guardato a questa America.

Hai viaggiato molto in America?

Ho vissuto a Seattle per cinque anni e poi oltre dodici anni a Brooklyn, New York. Ho viaggiato soprattutto nella Costa Ovest. Ma ho visto anche luoghi sulla Costa Est o altrove, dove ci sono aree che sembrano già rovinate, decadenti, come se appartenessero a un tempo passato. Lo senti proprio che certi luoghi sono già morti.

È colpa di come le cose cambiano in fretta negli Stati Uniti, ovunque. Aree ricche o sviluppate possono diventare in fretta povere e abbandonate. L’esempio più chiaro è quel che è successo a Detroit, una città industrializzata che ora sembra post-apocalittica. 

Days of Hate intervista Zezelj Kot Eris Edizioni

Questa serie in appendice ha un elenco di riferimenti e influenze. Riguardano soltanto lo scrittore?

Sì.

E le tue influenze quali sono state?

L’estetica noir e quella del fotogiornalismo e della fotografia di guerra. Riguardo al fumetto non saprei, poiché non mi è sembrato che ci fossero fumetti che rispecchiassero l’immaginario che cercavo di ricreare con questa storia.

Si può dire che questo libro sia il tuo lavoro più realistico.

La nostra intenzione era proprio creare qualcosa che sembrasse un documentario, nelle immagini, nella narrazione e nei personaggi. Non doveva sembrare un film di Hollywood, piuttosto un documentario.

Pensando appunto alla narrazione di questa storia, c’è molto viaggio ma anche molto dialogo, quasi come due dimensioni che si alternano. Com’è stato disegnare questi due tipi di situazioni?

Quando ricevo una sceneggiatura mi aspetto che lo scrittore non mi dia troppe indicazioni sugli scenari. Quello è un aspetto su cui mi piace fare ricerca o avere la libertà di creare. Ovviamente, quando si tratta dei dialoghi, quelli spettano completamente allo scrittore. Per il ritmo generale, effettivamente abbiamo cercato di creare qualcosa che fosse insolito per un fumetto mainstream. 

Di Ales mi piace, oltre alla sua bravura nello scrivere i dialoghi, il fatto che il suo non è un modo tradizionale di scrivere fumetti. Cerca sempre di uscire dai confini classici e fare qualcosa di nuovo. Questo è il nostro primo lavoro insieme, ma credo che non sarà l’ultimo, perché questa alchimia ha funzionato e il suo stile è qualcosa di nuovo che mi stimola molto.

Days of Hate intervista Zezelj Kot Eris Edizioni

Hai lavorato con molti scrittori e da solo, con editoria mainstream e indipendente. Qual è secondo te la differenza principale tra un fumetto da autore unico e un fumetto che realizzi con un altro scrittore?

Sono stato fortunato a lavorare con scrittori molto bravi. E c‘è da dire che, se è successo che la sceneggiatura non mi piacesse, ho rifiutato il lavoro. Perché per me è molto importante lavorare su materiale che ritengo di qualità e che la storia mi piaccia. Disegnare fumetti richiede molto tempo e impegno, vale la pena farlo su opere in cui credo davvero.

La differenza principale tra lavorare su storie mie o di altri sta nel fatto che io penso alle storie in modo completamente diverso, come a un unico insieme. La storia per me inizia sempre con una immagine o con alcune immagini. E prosegue come un film muto. Poi il procedimento è diverso, perché non necessariamente lavoro in ordine cronologico. Capita spesso che inizio dalle pagine iniziali, poi passo a quelle finali e infine quelle centrali, spostandomi come voglio.

Quando lavori su una sceneggiatura scritta da altri, tutto è organizzato diversamente, e prima di tutto devi rispettare l’ordine cronologico, pagina dopo pagina.

E a volte non sai cosa potrebbe succedere in seguito…

Esattamente! Quando lavoro al primo numero, non so con esattezza cosa succederà nel terzo o nel quarto. Invece se sono alle prese con un fumetto tutto mio, ho ben presente il quadro generale.

Sono due processi completamente diversi, ma mi piacciono entrambi, per ragioni diverse. Uno alimenta l’altro. Ci sono cose che imparo lavorando a storie altrui che poi applico nelle mie, o viceversa.

Leggi anche: “Days of Hate”, la recensione

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