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Fumetto Italiano"Graveyard Kids", botte da orbi in uno shonen manga all'italiana

“Graveyard Kids”, botte da orbi in uno shonen manga all’italiana

graveyard kids

Rob e suo fratello si sono trasferiti da poco alla scuola media “Cipollo II”. Appena arrivati finiscono per pestare i piedi al terribile Bill e alla sua ghenga. Sarà l’inizio di una guerra tra bande sempre più spietata e surreale, tra vecchie ferite mai completamente rimarginate, alleanze improbabili e botte da orbi. Questo l’incipit di Graveyard Kids di Davide Minciaroni, fumetto nato nel 2017 come autoproduzione fotocopiata per il collettivo Doner Club. Dopo un paio di uscite – e un Premio Micheluzzi come Miglior serie dal tratto non realistico nel 2018 – la serie è passata sotto l’egida di Edizioni BD che ha deciso di pubblicarne una versione rivista ed estesa in formato tankobon. Una scelta non casuale, visto come questo fumetto si inserisca perfettamente nel filone nipponico delle risse scolastiche.

Un genere forse non così noto al grande pubblico, ma in grado di imporsi tra le derive manga più suggestive grazie ad alcuni titoli di assoluto rilievo. Il primo esempio che corre alla mente è forse Crows di Hiroshi Takahashi (autore anche di Worst, sempre dello stesso genere), portato alla ribalta dall’ottima versione live action di Takashi Miike. Gli ingredienti sono quelli noti a tutti: scuole malfamate, bande di teppisti e tante risse. Oppure si possono citare cult assoluti come Cromartie High School di Eiji Nonaka (anche questo portato sul grande schermo, ma da Yūdai Yamaguchi) o Angel Densetsu di Norihiro Yagi. A questi si affianca una lunga di serie di titoli (da Clover di Tetsuhiro Hirikawa a Kyō Kara Ore Wa!! di Hiroyuki Nishimori), che testimonia come si tratti di un genere vitale e ricco di sfaccettature. Un eclettismo che trova una delle sue massime espressioni nel folle lungometraggio My Schoolmate, the Barbarian a opera di Wong Jing, regista e produttore di Hong Kong noto per la sua sconfinata filmografia, nella quale si vanno a toccare territori praticamente tangenti al fantasy.

graveyard kids

Come il cineasta, anche Davide Minciaroni sa benissimo che il poter sconfinare in altri ambiti sia forse l’aspetto più potente di tutto il genere, e ci gioca in continuazione. Partendo da una base nota a tutti innesta via via trovate sempre più sorprendenti, costruendosi – già al primo volume – un universo ricco e subito riconoscibile. Graveyard Kids è uno shonen che si continua a leggere anche solo per il gusto di vedere cosa arriverà dopo, per scoprire quale strano combattente dovranno sfidare Rob e la sua banda. Questa atmosfera di continua scoperta è prima suggerita da elementi surreali e fuori contesto, che sembrano inseriti in maniera quasi casuale – il compagno di banco dall’aspetto di limaccia, la testa ad anguria di Zucco – ma che acquistano via via sempre più significato. Quando entrano in campo temibili combattenti con il potere del tabagismo cronico o una banda composta da spietati gatti delle superiori si capisce come in Graveyard Kids tutto sia possibile.

Dopotutto quello della delinquenza giovanile è sempre stato un canovaccio perfetto per costruirci attorno mitologie più o meno complesse, dove è possibile spaziare in territori lontanissimi tra di loro. Fin dai tempi del The Warrior di Walter Hill, assieme a West Side Story, forse il caposaldo di tutto il filone, quella della guerra tra bande è sempre stata un scusa per poter inserire nel proprio racconto teppisti variopinti come se si trattasse di tribù di un mondo fantasy lontanissimo dal nostro. La potenza con cui il make-up dei Baseball Furies è rimasto nell’immaginario collettivo ne è testimonianza perfetta, così come il rigore marziale dei Gramercy Riffs. Hill pescava a piene mani nella cruda realtà della New York di Black Spades, Savage Nomads, Seven Immortals e Savage Skulls, ma quella della gang come tribù è un leit-motiv presente a ogni latitudine e da tempi immemori.

Tanto per rincarare la dose, oltre che per incorniciare meglio la storia in un periodo ben preciso della vita, Minciaroni non rinuncia a un substrato tipicamente da teen drama. Parliamo di tutto quel ginepraio di amicizie infrante, delusioni amorose, tradimenti e grandi amicizie in cui si va puntualmente a parare quando si parla di adolescenza. Raccontare di zuffe da terza media senza tirare in ballo le prime cotte o roboanti promesse di amicizia eterna ne avrebbe limitato l’incisività, relegando il tutto alle risse e all’incontro di avversari sempre più potenti ed eccentrici. In questo modo invece è dura non vederci qualcosa di personale. Si tratta di situazioni viste in così tante serie televisive da diventare ormai moderni tòpoi narrativi, ma l’innesto funziona bene proprio in virtù della sua matrice di cliché. Dubito che autentico esistenzialismo avrebbe funzionato meglio. A livello di struttura siamo sempre dalle parti di un gioco di rilettura di stilemi ben noti a tutti, ed è giusto che si rispettino le regole fino alla fine.

A questa deriva narrativa, già di per sé originale, Graveyard Kids sovrappone un ulteriore livello di personalità, aggiungendo a un mix già notevole di generi un’estetica che prende tanto da serie come Adventure Time quanto dal manga stesso. Mettendo oltretutto sul piatto una capacità di rilettura del linguaggio simile a quella che avevamo già apprezzato in Sam Bosma o Bryan Lee O’Malley. Come questi due autori anche Minciaroni prende tutta l’enorme libreria estetica dello shonen – retini, onomatopee, repentini cambi di densità dei particolari – e la fa propria, smontandola e riassemblandola a proprio piacimento. Il risultato non è un manga disegnato in Italia, ma qualcosa di molto più profondo, paragonabile a quanto fatto in Francia con Last Man.

graveyard kids

L’ossatura del fumetto giapponese è presente e sostiene tutto il progetto, ma non è mai scimmiottata. La si percepisce perché sottocutanea e chiave di tutte le meccaniche narrative, ma non si esplicita mai copiando il tratto di qualche mangaka. Quando si palesa è sempre in chiave umoristica e canzonatoria, come alcune bizzarre intrusioni nel kawaii più zuccheroso. L’estetica è gommosa, propensa alla deformazione, spesso con derive horror neppure troppo nascoste. La prima apparizione della maschera teschio di Bill è terrorizzante, molto più sgradevole del resto delle tavole. Alla stessa maniera i colpi alterano i corpi in maniera sensibile, introducendo un senso di realismo fisico straniante in un mondo che pare fatto di glucosio, e i volti si trasformano in ammassi di carne mostruosi per sottolineare reazioni emotive esasperate.

Nel mondo di Graveyard Kids convivono idee e spunti diversi tra loro, schiacciati senza troppe remore nelle 200 pagine di questo primo volume. I passi in avanti fatti dall’autore rispetto al debutto autoprodotto, più ruvido e meno consapevole nello scegliere ingredienti così lontani da loro, sono stati enormi. A conti fatti quello che ci arriva da Minciaroni è uno dei migliori debutti dell’anno, in grado di inserirsi senza problemi in quel filone sospeso tra pop spinto e spirito underground che vede tra i migliori esponenti italiani Spugna e Lorenzo Mò. Un risultato enorme, ma non troppo inaspettato, vista la risonanza che avevano avuto gli albetti fotocopiati. degli esordi – per uno dei fumetti più originali e divertenti che vi capiterà di leggere nel corso dei prossimi mesi.

Graveyard Kids 1
di Davide Minciaroni
Edizioni BD, settembre 2020
brossurato, 182 pp., b/n
13,00 € (acquista online)

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