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Le follie dietro “Le follie dell’imperatore”

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Una delle vignette più famose di Labadessa ha come protagonisti tre universitari che, nel tentativo di spronarsi a studiare, finiscono a perdere tempo rievocando un film della loro infanzia, Le follie dell’imperatore. La battuta «Ma Le follie dell’imperatore?! Che cazzo di filmone è?» è diventata un tormentone che il pubblico del vignettista non fa che riproporgli come si fa coi cavalli di battaglia di certi attori.

A parte l’appartenenza generazionale, la scelta di quel cartone – uscito il 15 dicembre 2000 negli Stati Uniti (e in Italia nella primavera del 2001) – non è casuale, perché gioca sul meccanismo di riscoperta di un cult sotterraneo che all’epoca del suo debutto nelle sale fu accolto con calore ma non certo con lo scroscio di applausi che aveva incensato i precedenti film Disney. E lo stesso vale per i meme tratti dal film. Quella battuta non avrebbe funzionato se al posto de Le follie dell’imperatore i pennuti di Labadessa avessero citato La sirenetta, Shrek o Lilli e il vagabondo, perché quelle sono pellicole ultranote che non hanno certo bisogno di essere legittimate o riscoperte.

Le follie dell’imperatore – la storia di Kuzco, imperatore Incas borioso ed egoista, trasformato in un lama dalla sua stregona di corte, Yzma, e impegnato a riconquistare il trono con l’aiuto del contadino Pacha – è una mitragliata di gag dal gusto eclettico: ci sono l’azione rocambolesca, la commedia cialtrona, ma anche le frecciate metanarrative, che gli autori inseriscono annusando l’aria postmoderna che da lì a poco avrebbe tirato sul cinema d’animazione. Tuttavia, ancora più rilevante della sua trama è la storia che portò alla realizzazione del film, una spirale di insicurezze, dietrofront e miracolosi salvataggi all’ultimo minuto.

A metà degli anni Novanta il co-regista de Il re leone Roger Allers iniziò a lavorare a un progetto personale molto ambizioso dal titolo Kingdom of the Sun. Allers lo immaginava come un musical epico, ambientato a Machu Picchu durante il regno degli Inca e con le musiche di Sting. Aveva in mente il modello de Il re leone: una storia classica (Amleto per Il re leone, Il principe e il povero per Kingdom of the Sun), musiche di un autore contemporaneo (Elton John lì, Sting qui), un’ambientazione larga e ricca di spunti (l’Africa prima, ora il Sud America) e un tono variegato che comprendesse amore, dramma, commedia, spiritualismo – un’alchimia difficile da ottenere, ma se hai appena diretto Il re leone e sei stato a capo della storia de La bella e la bestia qualche mania di grandezza ti viene.

La storia originale elaborata da Allers e il suo gruppo di lavoro vedeva un imperatore egoista scambiarsi di posto con un contadino per scappare dai suoi doveri istituzionali. Nel frattempo, la strega Yzma è intenzionata a evocare il dio della morte Supay affinché distrugga il sole e la mantenga giovane (il sole è responsabile del suo invecchiamento dovuto alle rughe). Quando Yzma scopre il piano dei due giovani, trasforma l’imperatore in un lama e obbliga il contadino a obbedire al suo volere. Quest’ultimo si innamora di Nina, promessa fidanzata dell’imperatore, mentre il lama si invaghisce di Mata, una pastoressa che lo aiuterà a sventare il piano della strega.

Ai dirigenti, nelle persone di Michael Eisner (CEO della Walt Disney Company), Peter Schneider e Thomas Schumacher, rispettivamente presidente e vicepresidente dei Walt Disney Animation Studios, la storia non andò a genio. «Non so a quali personaggi devo affezionarmi, il ritmo è molto sconclusionato e non mi sto divertendo molto» disse Schumacher dopo la prima proiezione interna del film in forma di story reel (uno storyboard doppiato). «Non è un dramma, non è una commedia» gli fece eco Schneider.

A un anno dall’inizio della produzione, si decise di coinvolgere Mark Dindal, regista di Cats Don’t Dance da poco tornato in Disney (dove aveva lavorato come addetto agli effetti speciali de La sirenetta), affiancandolo ad Allers per portare un po’ di umorismo. La storia si stava prendendo troppo sul serio e, soprattutto, non sembrava in grado di bilanciare tutti gli elementi (lo scambio d’identità tra i due personaggi, la storia d’amore, le motivazioni del cattivo, le musiche sofisticate).

Nonostante le numerose revisioni (tra cui una che immaginava una storia nemmeno ambientata in Perù), Kingdom of the Sun sembrava incastrato in una storia di cui nemmeno i dirigenti sapevano trovare i punti deboli. Sapevano che non era di loro gusto. Si decise di dividere il gruppo di lavoro in due: da una parte Allers, che avrebbe avuto libertà di rivedere la propria storia, dall’altra Dindal, incaricato di elaborare una versione più comica del film. «Roger lavorava da anni al film» disse Dindal. «Credo succeda, perdi l’essenza di quello che vuoi fare perché ci sono tante influenze esterne. Gli dissero di fare quello che voleva, lasciando perdere le note e i suggerimenti, per vedere se da solo sarebbe riuscito a sbloccare la situazione. A me chiesero di fare lo stesso.»

Allers semplificò la sua proposta originaria e presentò una versione del film in cui l’imperatore, trasformato in lama dalla strega, rimane nella città e, avendo a che fare con i cittadini, impara il valore della comunità. I dirigenti scelsero la versione comica, lineare e senza canzoni di Dindal, che manteneva la trasformazione del regnante in un lama, ma scartava tutto il resto in favore di una commedia on the road in cui un privilegiato egoista e vanesio impara una lezione d’umiltà, «come in un cartone di Chuck Jones, ma ancora più veloce». Dindal strutturò il film come una lettera d’amore ai corti animati di Warner Bros., dove l’umorismo era più sguaiato e acido rispetto al canone Disney. Vedendo il suo film completamente stravolto, Allers si rifiutò di lavorare alla nuova trama e si fece da parte.

Insieme ad Allers, altri membri della troupe abbandonarono il progetto. Andreas Deja, che aveva animato personaggi come Jafar, Scar e Hercules, aveva accettato di lavorare su Yzma perché, a suo dire «era la possibilità di avere una mia Crudelia De Mon, ero davvero esaltato da quell’incarico». Ma, nella riscrittura di Dindal, il personaggio aveva perso la gravitas del copione originale e Deja preferì dedicarsi ad animare la protagonista di Lilo & Stitch.

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Jim Hill, cronista specializzato sul mondo Disney, la racconta ancora peggio: spaventati dallo scarso successo di film “seriosi” come Pocahontas e Il gobbo di Notre Dame, i dirigenti prima chiesero di aggiungere commedia e poi si fecero dettare l’agenda dai focus group con il pubblico. Via allora la sottotrama romantica e il misticismo e spazio ai personaggi di Kuzco e Yzma, che avevano raccolto i favori degli spettatori.

Qualunque fosse la motivazione, ora il film era in mano a Dindal, che aveva una tabella di marcia strettissima – un anno e mezzo di tempo, senza possibilità di rinvii (la data di uscita era già stata spostata di sei mesi e, a causa dei contratti già firmati con i vari sponsor, non era possibile rimandarla ulteriormente).

Non solo, il gruppo di lavoro dovette rivedere il design dei personaggi e degli ambienti – fino ad allora tutti molto realistici. Il designer dei personaggi Joe Moshier ricorda che misero deliberatamente da parte lo stile naturalistico de Il gobbo di Notre Dame e Pochaontas per azzardare astrazioni geometriche e spigolature ispirate a Milt Kahl e Ward Kimball. Persa ogni pretesa di verosimiglianze, si scatenarono anche con le ambientazioni, e il regno di Kuzco si trasformò nella versione Inca di Las Vegas – un atteggiamento spregiudicato che oggi verrebbe probabilmente tacciato di appropriazione culturale.

Neanche le fasi successive del processo furono granché facili: David Spade, il doppiatore di Kuzco, iniziò a fare il difficile e, avrebbe spiegato uno degli animatori, «a una delle sessioni era davvero scocciato e noi avevamo il fiato sul collo per finire il film e ci servivano le sue battute da animare. Era davvero svogliato. Non so di chi fosse l’idea, ma siccome stavano girando il dietro le quinte, presero un operatore e gli dissero “guarda che stiamo filmando”. Gli facemmo rifare tutto ed era perfetto, solo perché era inquadrato». Il compositore Marc Shaiman fu sostituito da John Debney, perché quelle del primo erano musiche «troppo furiose e tutte prese a commentare l’azione comica, senza lasciare spazio alle emozioni e ai dialoghi», secondo il produttore del film Randy Fullmer. Poi, Sting, ambientalista convinto, scrisse una lettera criticando la scelta degli autori di concludere il film con Kuzco che costruisce il suo parco giochi Kuzcotopia sradicando una foresta pluviale. Lo studio acconsentì a modificare la scena in modo che Kuzco edificasse la struttura su un terreno spoglio.

Il presidente dello studio d’animazione Thomas Schumacher replicò con una dichiarazione particolarmente passivo-aggressiva: «Siamo disponibili ad accettare nuove idee. Immagino sia molto difficile per lui perché è un musicista molto concentrato sulle proprie idee e tutte le opinioni esterne gli faranno scoppiare la testa mentre per noi è molto naturale, accogliamo di continuo nuovi stimoli».

Anche sul titolo ci furono parecchie lotte. L’originale Kingdom of the Sun non aveva più senso dopo il cambio di trama (e nemmeno la variante Kingdom in the Sun). Dave Reynolds, lo sceneggiatore del film, raccontò che tra i tanti titoli pensati quello che li convinceva di più era Llama Boy, ma quelli del marketing lo scartarono perché assomigliava a Waterboy, una commedia con Adam Sandler uscita nel 1998. «Ci dissero che non volevano associare il film a quel tipo di pellicola. Ci guardammo tra di noi pensando “Ma lo hanno visto il film?”. Perché non avremmo dovuto essere associati a una commedia di successo?». Alla fine, The Emperor’s New Groove risultò il più popolare nei focus group e, nonostante le obiezioni degli autori («”new groove”» disse Reynolds «equivale a metterci un timbro con scritto “1988” sopra»), la dirigenza optò per quello. Per giustificare il titolo, realizzarono la scena in un cui un anziano passante «rompe il ritmo» all’imperatore durante la sequenza di ballo iniziale.

Quasi nessuno era entusiasta di The Emperor’s New Groove – una storpiatura della fiaba I vestiti nuovi dell’imperatore (The Emperor’s New Clothes), con cui però il film non aveva nulla a che fare. L’animatore di Kuzco, Nik Ranieri, ricorda di aver scritto una lettera di raccomandazione per favorire l’ingresso del collega Tony Bancroft tra i membri dell’Academy in cui diceva: «Tony sta lavorando al film The Emperor’s New Groove (ma non ha avuto niente a che fare con la scelta del titolo)».

Ironia volle che, proprio nel caso di una delle produzioni più travagliate, Disney avesse concesso a una regista esterna di filmare tutto il processo di lavorazione. Sting aveva infatti preteso che la moglie Trudie Styler, documentarista, riprendesse tutto. Il risultato finale, The Sweatbox, fu proiettato al Toronto International Film Festival solo nel 2002 perché «non faceva fare un gran figura ai dirigenti Disney» ha raccontato Allers a Fumettologica, «per questo l’hanno tenuto nel cassetto». Quando una versione preliminare del documentario finì online nel 2012, Amid Amidi, su Cartoon Brew, scrisse che era la storia di «artisti che devono sopportare l’incompetenza burocratica» e che «se rimangono ancora delle domande sul perché Disney dovette cedere la corona a Pixar e DreamWorks, questo film ha le risposte». Alcuni critici dissero invece che si trattava soltanto di «dirigenti che si vedono costretti a dire “no” a gente troppo sensibile» (nel 2018 uno di quei dirigenti fu accusato di molestie e linguaggio inappropriato sul luogo di lavoro).

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In The Sweatbox, si vede Allers elaborare la perdita del film: «C’erano troppi elementi insieme, misticismo, il cattivo, troppi ingredienti… Non so, niente Sting, forse? Mi sentivo come se il film si fosse trasformato in una manciata di coriandoli che mi cadevano dalle mani». Nel corso della nostra intervista del 2014 ha invece detto: «Kingdom of the Sun fu un’esperienza emotivamente devastante. Stavo creando una pellicola dal tono epico che mischiasse elementi di avventura, commedia, amore e misticismo. I dirigenti erano spaventati dal fatto che stessimo facendo troppi film in uno solo. Erano anche a disagio con l’aspetto spirituale e culturale degli Inca. Per cui decisero di farlo diventare una semplice commedia slapstick. Mantennero quel tanto di elementi che bastava (personaggi e cose del genere) a impedirmi di realizzare la mia versione del film da qualche altra parte».

Ciononostante, Le follie dell’imperatore si rivelò un buon film, animato con mestiere ma graficamente sbrigativo, che trae la propria forza dal ritmo frenetico a cui si muove, figlio dei tempi di lavorazione – «non c’era tempo per riscrivere o pensare troppo alle cose» confermò il regista -, e dalla scrittura disimpegnata ma piena di colori diversi – ci sono la narrazione metanarrativa, le gag fisiche, le battute adulte (nel climax del film, Yzma alza la gonna di fronte allo sconcerto dei presenti, che tirano un sospiro di sollievo quando la donna estrae un pugnale invece di mostrare le proprie nudità). Il copione poi è elevato dalla prova gigionesca di Eartha Kitt, che doppia Yzma (in italiano fu Anna Marchesini a prestarle la voce, con esiti altrettanto felici).

Uscito nel dicembre 2000, Le follie dell’imperatore confermò la parabola calante dei cartoni Disney al botteghino e iniziò a insinuare il dubbio che il pubblico si stesse disaffezionando all’animazione tradizionale, in favore dei film realizzati al computer. In realtà, la pellicola di Dindal soffrì anche di uno scarso investimento promozionale: Disney preferì infatti dedicare le risorse a La carica dei 102, sequel del fortunato film con Glenn Close, e riservò iniziative più consistenti per i film Pixar e per Atlantis, che sarebbe dovuto uscire l’estate successiva (e che finì per incassare poco più de Le follie dell’imperatore). Il cartone trovò il proprio pubblico quando uscì in home video, convincendo la Disney a realizzare altri progetti con protagonista Kronk.

Le follie dell’imperatore era un film troppo semplice e classico, che uscì in un periodo in cui gli spettatori pretendevano dai film animati un rilancio continuo in termini di storia e spettacolarità, ma che proprio per quelle caratteristiche ha saputo resistere al tempo meglio di altri, diventando il «cazzo di filmone» che conosciamo.

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