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“La carica dei 101”, l’inizio della Disney moderna

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La carica dei 101 è quello che succede quando i genitori sono in vacanza e i figli hanno casa libera per organizzare una festa con gli amici. E quando i genitori fanno ritorno, i mobili sono cambiati di posto e le pareti della cucina sono di un suggestivo color radicchio.

Il film con protagonisti i dalmata Pongo e Peggy e la loro cucciolata rapita da Crudelia De Mon, che vuole i piccoli per una lussuosa pelliccia, è infatti il risultato dell’iniziativa personale di un animatore che provò a rivoluzionare il processo e l’aspetto dei film Disney, ottenendo in cambio il disdegno di Walt in persona. Eppure La carica dei 101, che usciva nelle sale americane nel gennaio 1961, è ancora oggi uno dei film più pimpanti e moderni del canone Disney.

Il 3 maggio 1934 Dorothy “Dodie” Smith, romanziera e commediografa inglese, ricevette da una coppia di amici un cucciolo di dalmata come regalo per il suo trentottesimo compleanno. Lo chiamò Pongo. A mo’ di battuta, l’amica Joyce Kennedy, un’attrice, disse che Pongo sarebbe stato «un bellissimo cappotto». Qualche anno più tardi, gli altri due cani di Smith, Buzz e Folly, diedero alla luce una dozzina di cuccioli (le cronache sono incerte sul numero preciso). 

Ispirata dall’evento, Dorothy Smith scrisse The Hundred and One Dalmatians (in Italia tradotto con vari titoli, tra cui I cento e uno dalmata e S.O.S. al tramonto), un libro per bambini pubblicato nel novembre 1956 con le illustrazioni di Janet e Anne Grahame Johnstone. The Hundred and One Dalmatians ebbe grande successo e Walt Disney, che lo lesse poco dopo durante una crociera ai Caraibi, si affrettò ad acquistarne i diritti e istruì lo scrittore Bill Peet di «farci qualcosa».

Peet, che era anche animatore e illustratore, arrivò in Disney alla fine degli anni Trenta collaborando ai film più importanti dello studio. Era lo storyman – termine per indicare tutti coloro che lavorano alla storia di un film d’animazione, attraverso la stesura di sceneggiature e storyboard – di riferimento e quello che Walt Disney teneva in più alta considerazione (anche se la relazione tra i due naufragò durante la lavorazione de Il libro della giungla).

Peet non apprezzò granché il libro. Secondo lui, la trama presentava dinamiche poco interessanti. All’inizio della storia, per esempio, le due coppie (umana e canina) vivono già coniugate. «C’erano tutti gli elementi ma volevo creare una situazione romantica e viva» scrisse nel libro Bill Peet: An Autobiography. Complice la propria esperienza di scapolo, l’autore immaginò il film partendo dallo spunto di un cane d’appartamento che cerca una compagna guardando la gente dalla finestra di casa. Ancora: Rudy nel libro è un mago della finanza, Peet lo trasformò in un cantautore scapestrato, una soluzione che permetteva di inserire delle canzoni senza farlo sembrare un musical vecchio stile.

(immagini via Deja View)

Bill Peet scrisse l’intera sceneggiatura, realizzò gli storyboard, alcuni design dei personaggi e diresse le sessioni di doppiaggio, accentrando su di sé molti ruoli che di solito erano spartiti tra più persone (a un normale film Disney lavorano almeno 15 persone solo sulla trama). Più di altri film, La carica dei 101 è un film che vibra della personalità del suo stesso autore. In un’intervista apparsa su Hogan’s Alley nel 1988, Peet lamenterà i meriti che lo studio tutto – da Walt Disney agli animatori, passando per l’ufficio stampa – mancò di riconoscergli.

Se è vero che la storia fu affare di Peet, un altro aspetto cruciale della pellicola, l’aspetto e lo stile visivo, fu merito del direttore artistico Ken Anderson, il quale aveva lavorato come art director su Biancaneve e i sette nani e Pinocchio, oltre ad aver prestato servizio su Alice nel paese delle meraviglie e collaborato alla costruzione di Disneyland.

Alla fine degli anni Cinquanta, lo studio non se la stava passando bene. Il 1959 era stato un anno fiscale in perdita a causa dell’insuccesso de La bella addormentata nel bosco e Walt riceveva forti pressioni dai suoi consiglieri finanziari affinché abbandonasse la produzione dei film animati, limitandosi a ridistribuire al cinema quelli già presenti in catalogo. In più, Walt era sempre più preso dai progetti esterni allo studio e aveva ceduto parte del controllo creativo ai suoi collaboratori. «Walt diceva che sapevamo fare i film anche senza il suo imput e avrebbe continuato a lasciarceli fare» ebbe a dire Marc Davis.

Stimolato dal settore finanziario, Anderson iniziò a sperimentare un nuovo stile di gestione dei fondali e dei layout: «Mi chiedevano varie cose sulle spese dei film, e venne fuori che se avessimo eliminato il processo di inchiostrazione e colorazione avremmo risparmiato quasi la metà del costo. Andai da Walt con la notizia e lui disse: “Ah, va bene, per me puoi fare un po’ come ti pare”».

A quei tempi esisteva un solo modo per fare animazione: gli animatori disegnavano i personaggi su un foglio che poi, dopo essere stato ridisegnato da un clean up artist, il quale realizzava il disegno a matita finale, veniva inchiostrato e colorato sul retro di un foglio di acetato (chiamato rodovetro) per poter essere fotografato, con l’aggiunta dello sfondo, e diventare il fotogramma finale del film. Questi passaggi erano compito del reparto “ink and paint”, composto per la stragrande maggioranza da donne e molto dispendioso in termini di forza lavoro.

Con questo tipo di produzione si perdeva il tratto originale dell’animatore – che spesso disegnava affastellando molte linee e lasciandosi condurre dalla spontaneità del gesto -, che veniva rimpiazzato dalla precisione asettica del clean up artist. Non era una questione di chi lo disegnava, fossero anche gli stessi autori del disegno originale: la semplice azione di ricalcare toglieva vita all’immagine. «Il disegno originale avrà sempre più vita della copia perché sotto c’era una scintilla di vita accesa dal fatto che quel disegno è nato sotto la spinta di un’idea o di un’emozione» disse Anderson nel libro Working with Walt: Interviews with Disney Artists.

Anderson pensò di usare un processo inventato da Ub Iwerks basato sulla fotocopiatura (la Xerox aveva introdotto la prima vera fotocopiatrice nel 1949) per trasferire i disegni degli animatori direttamente dalla carta ai rodovetri. Attraverso gli ausili dell’elettricità e della chimica, venne messo a punto un metodo che consentiva alle fotocopiatrici di fissare sul rodovetro la linea a carboncino del disegno. Ma il procedimento non era esente da difetti e il carbone non aderiva completamente, lasciando una scia di particelle che davano al disegno una qualità grezza e friabile. Il metodo Xerox era già stato utilizzato nella scena finale de La bella addormentata nel bosco e poi, come prova ulteriore, nel cortometraggio Golia, piccolo elefante. I tre registi Clyde Geronimi, Hamilton Luske e Wolfgang Reitherman andarono dietro ad Anderson.

Xerox permise inoltre di realizzare il film in tempi e costi ridotti: invece che disegnare l’intero branco, gli animatori si concentravano su tre o quattro cuccioli e poi li replicavano, dando il tempo al reparto degli effetti speciali di concentrarsi sulle macchie tipiche dei dalmata (in animazione, tutto ciò che si muove ma non riguarda i personaggi ricade tra le competenze degli effetti speciali: agenti atmosferici, fuoco, fumo, bolle di sapone e via dicendo).

Fu un’operazione delicata perché andava studiato il motivo decorativo di ogni cane e chi disegnava doveva conoscere bene l’anatomia dell’animale per sapere come si spostano le macchie sul corpo in movimento. Secondo un comunicato stampa dell’epoca, Pongo ha 72 macchie, Peggy 68 e i cuccioli 32 ognuno (Lucky ha, ovviamente, un motivo a ferro di cavallo disegnato sulla schiena), per un totale di sei milioni di macchie disegnate. «Solo Disney poteva fare un film con 101 cani a macchie» disse Chuck Jones, regista premio Oscar dei cortometraggi delle serie Looney Tunes e Merrie Melodies. «Noi avevamo problemi a fare un film con un cane con una sola macchia.»

Gli animatori erano ben contenti di sapere che il loro lavoro sarebbe finito sullo schermo senza alcuna mediazione. «Sul grande schermo i segni sarebbero stati grossi qualcosa come quindici centimetri» disse Anderson, «ma erano linee esteticamente gradevoli, e poiché erano tracciate dagli animatori, contenevano sempre più vita di semplici ricalchi.»

la carica dei 101
In questa immagine si notano le linee a matita servite a disegnare la testa di Pongo – un’eresia per i canoni disneyani.

La produzione ordinò di disegnare pose quanto più pulite possibili, dato che alcuni animatori tempestavano il foglio di linee. In alcuni casi, fu comunque necessario un passaggio per cancellare tratteggi superflui. L’animatore Milt Kahl (uno dei Nine Old Men), per esempio, cercò di impedire che ripulissero i suoi disegni e così, in alcuni momenti del film, è possibile vedere le linee di costruzione della testa dei personaggi. Un altro problema che emerse è che la fotocopiatrice non poteva gestire colori diversi dal nero e perciò, da La carica dei 101 in poi, i personaggi Disney avranno sempre i contorni neri.

Anderson decise di impiegare la tecnica Xerox in tutto il film, sia per i personaggi che per gli sfondi. Come scrive Michael Barrier nella biografia Vita di Walt Disney, «aveva in mente un capovolgimento di ciò che era stato eseguito su La bella addormentata, dove i fondali accuratissimi di Eyvind Earle spiccavano fin troppo sulle parti in animazione. In La carica dei 101 le linee a matita degli animatori sarebbero state richiamate nello stile grafico dei fondali».

D’altronde, La carica dei 101 era il primo film Disney ambientato ai giorni nostri, in un contesto urbano come quello della città di Londra, per giunta, quindi anche i disegni avrebbero dovuto trasmettere un senso di modernità che lo stile rotondo e ottocentesco di Pinocchio o Cenerentola non poteva sostenere. Così, sotto la guida del pittore Walter Peregoy, gli sfondi si fecero forme astratte e scomposizioni geometriche, macchie di colore piatte che uscivano dai bordi.

Pongo disegnato da Milt Kahl

Lo stesso fecero gli animatori. Guardate come Milt Kahl spinse le forme di Pongo. La giustapposizione delle cosce appuntite su cui si sviluppa una schiena curvilinea fanno sembrare il cane una visione picassiana, eppure anatomicamente mai compromessa. Certo, è una stilizzazione estrema, sorretta però dai movimenti fluidi dell’azione che riportano il disegno a una realtà concreta e credibile, quella di un cane annoiato che si lascia cadere su una superficie comoda.

Anche se gli animatori Disney avevano familiarità con i personaggi a quattro zampe (Bambi, Lilli e il vagabondo), certe scene risultarono difficili da sbrogliare. Quando Crudelia De Mon fa visita per la prima volta alla famiglia, Peggy si rifugia sotto la stufa di casa, Pongo la segue cercando di rincuorarla che nessuno farà del male ai cuccioli. La recitazione dell’attore che doppia Pongo (Rod Stewart) non suggeriva nessuna azione da animare. Lo spazio era angusto e i personaggi non potevano muoversi. «Durante le riunioni c’era molta preoccupazione riguardo la messa in scena di quel passaggio» scrisse l’animatore Ollie Johnston in The Illusion of Life. «Era tutto troppo delicato.»

Alla fine, è proprio la difficoltà fisica di Pongo che cerca di raggiungere Peggy che comunica visivamente ciò che qualsiasi scambio verbale non avrebbe saputo rendere così bene: l’inadeguatezza di Pongo che non sa come consolare la compagna e si limita a leccarla sul muso, come farebbe un vero cane.

La carica dei 101 è pieno di grandi momenti: spicca su tutti la performance di Crudelia De Mon, curata da Marc Davis (nel suo ultimo incarico come animatore) e capace di scatenare l’invidia dei colleghi. Crudelia è il primo cattivo smaccatamente flamboyant, grottesco, eppure umanissimo (non ha poteri magici, non ha particolari abilità), esagerato nei movimenti e pieno di contrasti: la faccia scheletrica incorniciata da una lussuosa e morbida pelliccia, gli abiti candidi opposti al fumo nauseabondo della sigaretta montata su un bocchino.

crudelia de mon la carica dei 101

Che La carica dei 101 sia un film diverso lo si capisce anche dai titoli di testa, costruiti attraverso una musica ritmata e giochi visivi con le macchie dei dalmata, che diventano fumo dei vaporetti o note musicali. Disse Brad Bird (Il gigante di ferro, Gli Incredibili) nel documentario Redefining the Line «è una sequenza estrosa che mostra che gli animatori sono di umore giocoso e che vedrai un film visivamente delizioso».

Distribuito nei cinema statunitensi il 25 gennaio 1961 (in Italia arrivò il 30 novembre), La carica dei 101 fu un successo di pubblico – superò i 10 milioni di dollari d’incasso, un traguardo mai raggiunto da un cartone animato all’epoca – e di critica, che si sperticò a definirlo «il più incantevole e meno pretenzioso film mai prodotto da Walt Disney». La sua fama non fece che aumentare con il passare del tempo, grazie alla politica di ridistribuzione al cinema promossa dallo studio. Quando nel 1991 tornò nelle sale per la quinta volta ottenne il ventesimo miglior incasso dell’anno in America. Certo, il giudizio nel frattempo si era un po’ ridimensionato ma le imperfezioni nella costruzione narrativa si facevano perdonare dallo stile ancora fascinoso voluto da Anderson.

Dodie Smith, estasiata dal film, scrisse una lettera a Walt in cui gli augurava «tutto il successo che ti meriti». Ma Disney, che aveva contribuito soltanto in minima parte al film, non era dello stesso avviso. Sempre più preso dalla costruzione dell’impero Disney fuori dai film (con parchi a tema e la televisione), Walt non era più il supervisore scrupoloso che seguiva da vicino la produzione delle pellicola, arrivando a entrare a notte fonda nello studio per riguardare gli storyboard. Anderson ricordò con amarezza il periodo successivo all’uscita del film: «Ero in riunione con gli animatori e Walt, e lui disse: “Non faremo mai più un’altra di quelle dannate cose come ha fatto Ken”. E non mi parlò per un anno circa».

«Disney odiava il sistema Xerox perché andava contro ciò in cui credeva. Quelle linee ricordavano a tutti che stavano guardando dei disegni» scrisse Charles Solomon nel saggio Spot on contenuto in The Walt Disney Film Archives. Anche se a Walt non piaceva, la tecnica Xerox, raffinata, aggiustata e migliorata negli anni, sarebbe stata utilizzata per tutti i film dello studio, fino a La sirenetta, per poi passare al sistema digitalizzato noto come CAPS.

Come spiega Floyd Norman, animatore veterano dello studio, «quando riuscimmo a perfezionare lo Xerox al massimo delle sue potenzialità, arrivò il momento in cui passammo al digitale». Se La bella addormentata aveva rappresentato una piccola novità nel design delle ambientazioni, spigolose e bidimensionali, La carica dei 101 rivoluzionò il segno e il processo produttivo stesso, gettando le basi per una nuova stagione di film meno ingessati, anche meno sontuosi, ma più svelti e vicini alla sensibilità degli spettatori.

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