Girava un grafico, negli uffici milanesi di Walt Disney Company Italia di primi anni Duemila. Lo chiamavano chart, perché, insomma, l’inglese. Esibivano la chart come una medaglietta, un’onorificenza al merito, alle riunioni o durante le presentazioni con i licenziatari. Nella chart erano elencati i periodici con più versioni internazionali al mondo. Al primo posto si piazzava Cosmopolitan, Reader’s Digest al secondo e il terzo era di Elle. Poi, al quarto posto, c’era il fumetto italiano W.I.T.C.H., distribuito in più di 70 paesi, secondo i dati riportati dal Corriere della Sera nel 2004. Era un risultato di cui farsi vanto, anche se non si può dire che chi se lo appuntava al petto lo avesse cercato, o coltivato. Osteggiato, semmai.

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La copertina di ‘W.i.t.c.h.’ 1

Serie con protagoniste cinque ragazze che scoprono di avere poteri magici, W.I.T.C.H. era figlia di un periodo di grande fermento all’interno del marchio Disney, la cui divisione editoriale italiana aveva prodotto successi come PK – Paperinik New Adventures, incursioni di buona fattura ma sfortunate nelle vendite come Mickey Mouse Mystery Magazine, e aveva portato il settimanale Topolino a superare il milione di copie, traguardo mai raggiunto da alcun fumetto nel nostro paese.

W.I.T.C.H. era tagliato su misura per un pubblico con la testa già nel futuro: presentava uno stile fusion, tra manga e fumetto europeo, e soprattutto non aveva personaggi Disney preesistenti – i cosiddetti standard character, come Topolino e Paperino. Tutte cose che l’azienda non vedeva di buon occhio. Per questo ne ostacolò la produzione, rendendo la nascita di W.I.T.C.H. e il suo imporsi sul mercato un miracolo editoriale in grado di aprire la strada al nuovo. 

In principio fu Minni

Nel 1993, Bruno Concina e Maurizio Amendola avevano realizzato una storia intitolata Minni e le magnifiche cinque. Pubblicata sulla testata per piccini Minni & Company, vedeva Minni andare a vivere a Villa Topis, una magione di proprietà dell’amica Anna Topetti, per badare a cinque studentesse (umane) che si rivelavano dotate di poteri magici. Due anni dopo, gli stessi autori realizzarono una seconda avventura con Minni e le cinque ragazze.

Nell’estate del 1997, la dirigenza diede ordine di sviluppare un progetto che intercettasse il pubblico femminile preadolescente, tagliato fuori da produzioni infantili come Minni & Company o La Sirenetta, e che sapesse catturare il lettore smaliziato come aveva fatto PK – Paperinik New Adventures, la rivisitazione di Paperinik progettata per un pubblico avvezzo alle ruvidità dei comic book statunitensi. 

«A Disney mancava la fetta di pubblico adolescenziale femminile e volevano che provassimo a farlo con i personaggi già esistenti» racconta a Fumettologica Elisabetta Gnone, che all’epoca era appena diventata direttrice responsabile della cosiddetta Area 2 dell’editore (quella che produceva le testate prescolari e per ragazze) e che fu incaricata di supervisionare il progetto. La prima cosa che fece fu chiamare una sua conoscenza, Barbara Canepa.

Barbara Canepa era una giovane illustratrice entrata in Disney su suggerimento del collega Alessandro Barbucci. I due si erano conosciuti dopo che Canepa si era innamorata di un disegno di Barbucci pubblicato su Topolino 2000 e lo aveva cercato sull’elenco telefonico, scoprendo che vivevano entrambi a Genova. Dopo aver frequentato la facoltà di architettura, si era specializzata all’Accademia Disney sui personaggi cinematografici e aveva trovato impiego presso l’Area 2 disegnando e colorando storie e copertine per la rivista La Sirenetta.

«Io ed Elisabetta ci trovavamo molto bene a livello umano» dichiara Canepa a Fumettologica. «Cercavamo entrambe nuovi modi di innovare certi classicismi grafici abusati. Un giorno mi parlò di questa idea di Minni e un gruppo di ragazze dai poteri magici. Le dissi che ne avrei parlato con Alessandro perché sarebbe stato il disegnatore perfetto per il tema. Così, tutti insieme, cominciammo a studiare il progetto.»

Copertina de “La Sirenetta” disegnata e colorata da Barbara Canepa. Lo stile utilizzato sulla rivista colpì a tal punto Gnone da farle decidere di chiamare Canepa per il nuovo progetto in sviluppo.

Enfant prodige della nuova generazione di disegnatori Disney, Barbucci aveva inanellato una serie di progetti e competenze importanti: fu, appena ventiduenne, insegnante all’Accademia Disney («quasi tutti gli allievi erano più vecchi di me!»); disegnò per PK ma si allontanò dalla testata dopo essere entrato in conflitto con la redazione; insieme agli sceneggiatori Bruno Enna, Diego Fasano e Paola Mulazzi, co-creò la fortunata serie Paperino Paperotto, ciclo di storie in cui è raccontata l’infanzia di Paperino, vissuta nello scenario rural-novecentesco della fattoria di Nonna Papera.

Barbucci era cresciuto senza il rispetto per la norma. Guardava a Giorgio Cavazzano come colui che più di tutti aveva rotto i ponti con la tradizione Disney – diventando con il tempo il nuovo canone dell’editore. Era incoraggiato a perseguire il proprio stile dalla direzione, che lasciava ampi spazi di manovra a disegnatori radicali come Fabio Celoni, Alberto Lavoradori e Paolo Mottura. Avventato, spregiudicato e giovane, Barbucci si lasciava influenzare dall’animazione, dal cinema, dalla narrazione visiva in generale. Le sue tavole presentavano punti di vista esagerati, composizioni piacevolmente caotiche, design spettinati e pose dinamiche, dove contava più l’espressività del movimento e meno la silhouette piatta.

L’omaggio di Alessandro Barbucci pubblicato su “Topolino” 2000. In questo buffo autoritratto si notano i suoi segni stilistici: l’impronta caricaturale, il tono giocoso, il gusto per la modernità (la tuta che tradisce la giovane età, altri suoi colleghi avrebbero probabilmente scelto abiti più professionali)

Mai troppo legata al fumetto italiano o al concetto di confine culturale, la sua matita assorbiva qualsiasi stimolo le capitasse a tiro. «Cercavo sempre qualcosa che mi corrispondesse. Mi sembrava di averlo trovato con Tank Girl di Jamie Hewlett, anche se non del tutto.» E in effetti, le prime idee visive per quello che sarebbe poi diventato W.I.T.C.H. giravano dalle parti di Hewlett, ma furono ritenute troppo aggressive.

Complice l’ondata di manga e anime che travolse l’Italia negli anni Novanta e grazie ai consigli di lettura di Canepa, Barbucci cominciò ad appassionarvicisi, integrando i codici visivi del fumetto giapponese al fine di trovare la quadra stilistica giusta per un pubblico femminile in età adolescenziale. Nell’era precedente a Google Immagini, ai due capitava perfino di andare a Parigi apposta per reperire materiale alla libreria Junku, specializzata in pubblicazioni giapponesi. «Scartabellavo tra le proposte, a volte compravamo una rivista solo per un’illustrazione e poi dentro ci mettevamo un post-it per poterla recuperare alla bisogna.»

«Il mio terreno del gioco è sempre stato il mondo» dice Barbucci. «Per me era normale che un personaggio potesse essere letto in tutto il globo, ed era altrettanto normale mescolare nel disegno tutte le influenze.» Fu in questo clima che nacque lo stile fusion noto come “euromanga”, che mischiava la tradizione occidentale con gli stilemi grafici del manga, e di cui Barbucci e Canepa furono tra i principali esponenti. «Sono cresciuta grazie al fumetto e non conosco un modo di comunicare così trasparente e poetico» disse Canepa in un’intervista apparsa su Annuario del Fumetto 2001.

Paperina va in città

Dato il buon riscontro che Minni e le magnifiche cinque aveva avuto tra le più piccole, Gnone mise in cantiere una proposta con al centro la fidanzata di Topolino nel ruolo di detective, e le cinque ragazzine a farle da spalla. Coinvolse alcuni sceneggiatori in forza all’editore ma ogni idea riconduceva a situazioni innocenti, troppo innocenti. A nulla servì spostare l’ambientazione a Paperopoli, sostituendo Minni con Paperina e battezzando il progetto Daisy D. e le magnifiche cinque, nel tentativo di creare un corrispettivo di PK. Ora Paperina, femminilizzata dal nuovo design di Barbucci e Canepa, guidava una Porsche rossa, portava uno spolverino e i tacchi alti, e investigava sui misteri di un college abitato da cinque ragazze, in realtà streghe.

In Gnone maturò fin da subito il dubbio che nemmeno Paperina sarebbe riuscita a raggiungere il target preadolescenziale delle dodicenni. Nel momento in cui le cinque ragazzine calcavano la scena, Paperina diventava un’aggiunta fuori posto a un’idea che funzionava già da sola.

Una tavola inedita di “Daisy D. e le magnifiche cinque”, di Barbucci e Canepa (per gentile concessione di Barbara Canepa)

Se in PK il problema era non pasticciare con un personaggio importante come Paperino coinvolgendolo in situazioni inappropriate, nel progetto diretto da Gnone una strana forza di gravità ancorava Paperina al terreno. Era un oggetto narrativo inamovibile con cui il gruppo di lavoro non sarebbe mai riuscito a raggiungere gli obiettivi di pubblico prefissati. «Sicuramente Disney avrebbe sperato di fare una versione femminile di PK» commenta Gnone. «Il problema è che un ragazzo di 12-13 anni non è assimilabile a una ragazza della stessa età. Le ragazze sono più grandi. Dalle ricerche di mercato si vedeva che cambiavano completamente letture, andavano su storie d’amore o diaristiche. Dell’amore tra un papero e una papera non gliene fregava niente. Volevano figure umane in cui identificarsi.»

Ma quando Gnone chiese ai suoi superiori di rimuovere Paperina dall’equazione, questi dissero di no. I piani alti non avevano intenzione di fare a meno dello standard character, il personaggio consolidato che rappresentava una base di conoscenza comune a tutti i lettori. «Però io vedevo il potenziale di quei disegni e del progetto in generale e quel “no” non riuscivo ad accettarlo.» Così, per qualche mese, andarono avanti senza ufficializzare la cosa, di sera o nei ritagli di tempo, per cercare di produrre materiale a sufficienza da convincere l’editore che fosse un progetto valido. Barbucci e Canepa tenevano i disegni a casa. Nei cassettoni chiusi a chiave degli uffici di redazione, dove andavano riposti gli originali, mettevano le fotocopie.

Nuovo stile

W.I.T.C.H. nacque come metafora dell’adolescenza. Nelle intenzioni di Gnone, ogni personaggio incarnava un modo di affrontare la fase di passaggio alla maturità. «Quando ero ragazzina avevo un gruppo di amiche e ognuna di noi viveva il cambiamento in modo diverso: chi era entusiasta di diventare grande, chi voleva restare nel proprio corpo – come me – chi era studiosa e se ne fregava.» Fulminato dai manga, Barbucci sperò di incanalare dentro W.I.T.C.H. «il modo che hanno gli autori giapponesi di confrontarsi con l’adolescenza» disse in un’intervista apparsa su Scuola di Fumetto 72. «Nel mondo occidentale tendiamo a fare negazione, a dimenticare volontariamente quel periodo della nostra vita e costruirci dei falsi ricordi. Invece in oriente sono spietatamente lucidi e raccontano l’adolescenza con una franchezza che fa male.»

Il gruppo di lavoro sapeva che la forza del concept stava nell’ibrido tra il racconto Disney e quello orientale del mahō shōjo. In Italia noto anche con il nome di majokko, è un sottogenere di manga e anime che unisce magia, mondo fantastico, commedia e romanticismo. «Il manga stava diventando molto popolare in Italia, specialmente con il pubblico femminile, e non potevamo ignorarlo.» L’eterogeneità del gruppo – una delle ragazze è cinese, un’altra afroamericana – è invece una conseguenza diretta di ciò che stava succedendo nel mondo giovanile, in particolare nella musica, dove le Spice Girl stavano veicolando un’immagine femminile diversificata.

Gnone e Canepa decisero i nomi delle eroine (Will, Irma, Taranee, Cornelia e Hay Lin) sapendo che il titolo della serie sarebbe stato un acronimo delle loro iniziali. Will, il cui nome è un omaggio al soprannome con cui Gnone chiamava il marito, “Will il coyote”, «perché devasta ogni cosa a cui passa vicino», rispecchia l’infanzia e il carattere di Gnone, appassionata di animali e cresciuta da una madre separata, mentre Irma era il nome della sua bisnonna. E i compleanni dei personaggi erano quelli degli autori e dei loro famigliari.

Oltre a disegnare i costumi delle W.I.T.C.H., Canepa contribuì poi con un dettaglio iconografico essenziale: in quel periodo portava un ciondolo di cristallo, oro e argento realizzato da un artigiano e che fornì la base per il design del Cuore di Kandrakar, l’artefatto affidato a Will con cui le ragazze si trasformano in Guardiane. «Io l’avevo posato sul tavolo e Alessandro, che non trovava un modo soddisfacente di visualizzarlo, alla fine pensò di copiarlo. Lavoravamo senza sapere ciò che stavamo facendo. Giocavamo, anche per toglierci dal tran tran dei lavori quotidiani, che non ci soddisfacevano creativamente. Mai avremmo pensato che l’avrebbero riprodotto in mille salse.»

La fumettista si occupò di scegliere i poteri delle cinque, che nel fumetto controllano gli elementi (acqua, aria, terra, fuoco e Pura Energia, il potere derivato dal Cuore di Kandrakar). Li scelse ispirandosi alla percezione del femminile e della magia nell’antichità. «La donna strega per me non è mai stata la vecchia arcigna di Biancaneve» racconta Canepa. «Guardavo alle “vere” streghe, donne che nei tempi antichi curavano con le erbe o con rimedi naturali. Avevano delle sapienze, erano guaritrici. Il legame della donna con la natura è un aspetto che ho sempre sentito vicino al mio modo di pensare ed essere.»

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Una delle prime immagini di W.I.T.C.H. realizzate da Barbucci e Canepa nel 1998, colorata a mano con l’ecoline. La coppia inserì la spilla di Minni nel taschino di Will come omaggio alle origini del progetto.

Le idee originali di Gnone, Barbucci e Canepa giravano attorno a tematiche miyazakiane, con una rappresentazione meno netta del bene e del male, e l’accento sull’ecologia, la morte e aspetti intimistici. Elyon, l’erede al trono di Meridian, la capitale del mondo magico che si contrappone al nostro, avrebbe dovuto avere il potere della morte, ma la dinamica sarebbe stata troppo complessa da gestire in un fumetto Disney. Ciononostante, W.I.T.C.H. avrebbe dimostrato grande disinvoltura nell’affrontare il concetto di lutto. Come spiega a Fumettologica lo sceneggiatore della serie Francesco Artibani, «portammo un minimo di realismo in un mondo dove non c’erano più animali antropomorfi ma ragazze in carne e ossa».

«Le prime versioni di W.I.T.C.H. erano più morbide, più cartoonesche» afferma Canepa. «Fu la decisione di utilizzare il linguaggio manga a modificare le proporzioni.» Cercando una via di fuga dai rigidi paletti Disney, Barbucci e Canepa si misero al lavoro su Sky Doll, serie di fantascienza dai toni adulti (la storia tratta di politica, religione e sesso) che sarebbe uscita a partire dal 2000 e li avrebbe fatti conoscere in tutto il continente come portabandiera dell’euromanga: «Ognuno influenzava l’altro, più facevo i colori di Sky Doll più li mettevo su W.I.T.C.H. e più Alessandro diventava realistico su Sky Doll più diventava realistico W.I.T.C.H.» Anche un piccolo progetto su PK, la serie di storie scritte da Francesco Artibani Arriva Trip, funse da palestra per il team creativo, che sperimentò con una colorazione (ancora a mano) inusuale e sofisticata.

Canepa voleva che il fumetto si distinguesse cromaticamente: «Per me era abbastanza ovvio, non volevamo fare i colori di Topolino, che all’epoca erano piatti e con poca varietà. Volevo qualcosa che lo caratterizzasse di più, in maniera più realistica e moderna. Volevo soprattutto suggerire il senso del tempo, del meteo, delle atmosfere. Il freddo, il vento, la pioggia, il giorno e la notte, le stagioni. Tutti elementi spesso esclusi in sceneggiatura».

I dirigenti imposero di ricondurre i personaggi entro confini disneyani, tanto da obbligare Barbucci a disegnare i personaggi con il naso a tartufo, come quello di Topolino: «Erano inguardabili. È difficile lavorare quando qualcuno non ha i tuoi stessi riferimenti o la tua stessa cultura visiva, è come parlare due lingue diverse». Anche gli occhi dei personaggi davano fastidio ai piani alti, perché troppo reminiscenti dello stile manga. Era un’obiezione paradossale: uno degli elementi che contraddistinguono il design Disney è proprio la forma esagerata degli occhi. Allora Gnone pensò a una provocazione. «Dissi ad Alessandro di disegnare delle schedine di personaggi, da una parte il personaggio intero, dall’altra parte i suoi occhi. Feci fare Mulan, Jasmine, la Sirenetta, una o due eroine dei fumetti americani e poi una delle W.I.T.C.H.. Distribuii queste schede mostrando solo gli occhi e chiesi, a chi protestava, di individuare gli occhi “manga”. Mi pare scelsero la Sirenetta.»

Quella riunione non finì a sorrisi. I superiori della direttrice la presero male, indispettiti dal suo atteggiamento indisciplinato. «Poi allora mi fecero scegliere, o gli occhi “manga” o la colorazione artistica. Perché una cosa escludesse l’altra era difficile capirlo. Non venivano date spiegazioni, erano “no” e basta. Si può essere anche molto critici ma proattivi, loro volevano soltanto demolire. Invece di essere un progetto comune animato dallo spirito di squadra diventò una cosa molto faticosa.» A un certo punto pensarono di rivendere il progetto a terzi, perché, afferma Canepa, «non era stato comprato, ancora, e nessuno ci aveva pagato».

Era un Halloween buio e tempestoso…

A salvarli arrivò la cavalleria, nella persona del dirigente americano del ramo editoriale Disney, che veniva una volta all’anno in Italia per partecipare alla presentazione dei progetti in sviluppo. Gnone aggiunse in coda W.I.T.C.H., «di fronte allo sbigottimento dei miei superiori, che me lo avevano vietato. Il responsabile americano dell’editoria si innamorò del progetto e finalmente ottenemmo il via libera». Artibani, autore che aveva lavorato a Topolino, Lupo Alberto e PK, salì a bordo come story editor, colui che, per i primi tre anni del mensile, si sarebbe occupato di stendere la trama di ogni ciclo narrativo e coordinare il lavoro con gli altri sceneggiatori.

«Sul pitch ci avevano messo le mani tante persone, anche di provenienza non disneyana, c’erano due o tre filoni da cui ho attinto alcune idee che piacevano alla redazione» ricorda a Fumettologica Artibani. «In un caso era troppo orientato a una serializzazione manga, una decompressione della narrazione, con meno spazio all’azione e alla commedia. Io ho cercato una via di mezzo che conciliasse le due anime, la disneyana e quella che guardava al manga.» I modelli di riferimento di W.I.T.C.H. erano quelli dominanti in quegli anni, i mondi magico-adolescenziali di Harry Potter, che era appena esploso come fenomeno, e Sailor Moon.

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Per far diventare l’immaginario di Barbucci e Canepa il marchio visivo della serie, l’editore organizzò corsi di formazione per sceneggiatori, disegnatori e coloristi. Barbucci tenne delle lezioni di disegno, Canepa un corso sull’introspezione dei manga, insieme ad Artibani, e poi uno per i coloristi: «Erano abituati a Topolino, andava cambiata la mentalità. Le ombre non dovevano più essere un solo colore piatto. Il bicchiere andava colorato trasparente, non blu. Il bianco di notte diventa azzurro, le finestre non sono turchesi se fuori c’è il cielo grigio. Insegnai loro il concetto di uniformare il tono delle tavole, senza usare tutti i colori dell’arcobaleno!».

L’inedita sistematizzazione dell’estro artistico colpì la stampa e sui giornali quasi passò l’idea che W.I.T.C.H. fosse un progetto nato in seno all’Accademia Disney. Non era vero, ma, come rilevava Repubblica nel 2004, l’Italia si era fatta industria, «scuola, laboratorio, fucina creativa», istruendo a disegnare on model, seguendo il modello e piallando ogni asperità stilistica individuale. Canepa, che aveva iniziato imparando a riprodurre la Sirenetta come l’avevano disegnata nel film, sopprimendo la propria personalità, ora insegnava a una schiera di coloristi a emulare il suo, di stile.

Tuttavia, anche quando la macchina produttiva entrò a regime, W.I.T.C.H. rimase un affare di pochi, un prodotto le cui riunioni creative si consumavano a un tavolo con non più di cinque persone. «Gli incontri di PK erano delle bellissime assemblee di condominio dove ognuno proponeva un’idea» ricorda Artibani. «Su W.I.T.C.H. il numero contenuto di autori ci ha permesso di lavorare con più tranquillità e in maniera più coordinata, ed era più facile tracciare una continuity rilassata.»

Anche se esperienze editoriali come Minni & Company avevano veicolato percezioni molto nette di ciò che maschi e femmine consumavano, tutto il gruppo di lavoro di W.I.T.C.H. – la cui età media era abbastanza giovane – quelle divisioni le aveva ormai superate. Artibani e gli autori scrivevano senza pensare a chi avrebbe letto la storia, costruendo cioè qualcosa che fosse apparentemente per ragazze, ma che parlasse a tutti.

Lo sceneggiatore era consapevole che non avrebbe potuto «inseguire il consenso sul piano della moda o del gergo, perché nessun adulto può sperare di intercettare la psicologia di quei personaggi. Non è roba nostra. Possiamo raccontarla solo per sentito dire, e quindi senza credibilità, specie se sono maschi che raccontano il mondo femminile adolescenziale». Si era ormai deciso di aprire la serie a storie dove la componente intimista era importante ma non centrale, «lasciando fare il resto al pubblico, che aggiungeva quello che mancava riportando le storie a sé e al proprio vissuto, che poi è il lavoro che si fa con i fumetti sempre, perché il ritmo, lo spazio bianco, lo colma il lettore».

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Una tavola priva di lettering dal primo albo di W.I.T.C.H.

Nei primi 12 numeri della serie, i lettori fanno la conoscenza di Will Vandom, Irma Lair, Taranee Cook, Cornelia Hale e Hay Lin Lin, ragazzine che vivono nella città di Heatherfield e che scoprono di essere Guardiane della Muraglia che separa la Terra e gli altri pianeti dalla zona oscura del Metamondo, avente come capitale Meridian. Yan Lin, nonna di Hay Lin ed ex-Guardiana, dona a Will il Cuore di Kandrakar, un oggetto che trasforma le ragazze in eroine alate.

Nel frattempo, Phobos, malvagio principe del Metamondo, di cui ha usurpato il trono, desidera che la Muraglia venga abbattuta per poter assorbire l’energia degli altri mondi, avendo ormai prosciugato, con la sua sete di potere, quella del proprio. Per questo motivo, rintraccia la sorella Elyon, legittima erede al trono, e la convince che le Guardiane sono malvagie e l’hanno tenuta separata dal fratello per anni. Phobos vuole assorbire i poteri della ragazza per portare a termine il suo piano, poi sventato dalle W.I.T.C.H.

La storia era stata pensata come una miniserie di 12 numeri, poi ridotti a 9, a causa della scarsa convinzione da parte della casa editrice, che solo quando vide i risultati di vendita riportò le uscite al numero iniziale e diede ordine di farla diventare una serie regolare. Gli autori lavorarono con in mente la data di lancio di ottobre 2000, con la prima avventura non a caso intitolata Halloween. L’uscita slittò ad aprile dell’anno successivo perché la dirigenza chiese di modificare e allungare il finale dell’albo («volevano più azione e una chiusa quasi autoconclusiva»). Ancora prima di partire, però, la testata aveva già perso il proprio direttore.

Italia=centro del mondo

«Le ragioni di un addio non stanno mai da una sola delle due parti» dice Elisabetta Gnone, spiegando che il rapporto con l’editore si logorò a colpi di litigi e incomprensioni, portando poi all’abbandono della direttrice nel 2001. «In generale ero poco comunicativa, stendevo pochi verbali, preferivo fare le cose piuttosto che raccontarle. Soffrivano un po’ il mio atteggiamento. Ma il progetto W.I.T.C.H. incrinò ogni rapporto. Non c’erano più i presupposti per lavorare insieme. La Disney non era più quella che avevo imparato a conoscere io. Se ogni progetto doveva essere quell’incubo lì, non era più divertente

Con Gnone in procinto di abbandonare l’azienda, alla fine del 2000 fu chiamata a dirigere l’Area 2 – e quindi anche W.I.T.C.H.Valentina De Poli. Quella di De Poli è una storia che fa il giro: era entrata nella redazione di Topolino ancora studentessa, nel 1987, con il compito di rispondere alla posta dei lettori, per poi percorrere tutte le tappe del lavoro editoriale. Dopo essere diventata giornalista, e aver preso parte al progetto PK, era passata all’editore Gruner + Jahr per occuparsi di giornali femminili.

«Quello che feci io come prima cosa, e mi avevano chiamato per quello, fu di capire che oltre al fumetto c’era la possibilità di fare qualcosa di più, creare un vero magazine e una comunità di lettori e lettrici. Un po’ come era successo con PK, solo che lì c’era un po’ scoppiata tra le mani, qui era più intenzionale» racconta De Poli a Fumettologica.

De Poli portò la sua esperienza di vicedirettrice di Top Girl – dove l’approccio giornalistico era più strutturato – unendola agli anni passati in Disney, in particolare su PK. Insieme alla caporedattrice Veronica Di Lisio costruì un mensile che accogliesse i lettori, ribattezzati “witchreader”, e creasse un forte senso di comunità attorno all’albo, in un mondo dove la fruizione del prodotto non era ancora sparcellizzata in tante piccole nicchie.

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La critica del fumetto definì la serie «un piccolo capolavoro», e la giuria dei Gran Guinigi, il premio di Lucca Comics & Games, le assegnò il titolo di miglior serie italiana. Ad appena un anno dal suo debuttò, W.I.T.C.H. raggiunse le 200.000 copie vendute al mese. Un risultato che fa girare la testa più adesso che all’epoca, in un mercato dove Topolino macinava circa 400.000 copie alla settimana, ma comunque prestigioso se si considera che era una serie con personaggi originali. Nel 2004, arrivò a vendere più di 20 milioni di copie all’anno in tutto il mondo.

Era il prodotto giusto per il proprio tempo, capace di tracciare nuovi percorsi rimanendo nel solco della tradizione. Come scrive Marco Pellitteri nell’articolo Kawaii Aesthetics from Japan to Europe, W.I.T.C.H. rappresenta uno dei maggiori emblemi di come, nell’Europa dei primi anni Duemila, sia stato messo in atto un progetto di meticciato estetico e commerciale.

Milano diventò uno dei distaccamenti più importanti dell’impero Disney, che istituì il capoluogo lombardo quartier generale della Walt Disney Publishing Worldwide, insieme a Glendale, nella bassa California. «Grazie a W.I.T.C.H. l’Italia è diventata il centro di produzione e di controllo mondiale dell’editoria a fumetti Disney» ricorda Artibani. «Essere il centro creativo e soppiantare la Francia, che fino a quel momento deteneva quel ruolo, fu un grande risultato.»

Il successo all’estero significò anche l’implementazione di un lavoro diplomatico con paesi e culture diverse. Ogni licenziatario gestiva la parte redazionale come voleva, ma alcuni paesi avanzavano richieste specifiche sui fumetti. Dal Nord Europa provenivano spesso inviti a insistere sulla tradizione magica, che da loro era molto sentita. La responsabilità internazionale diventò un peso, perché, rievoca De Poli, «rispetto a PK, non potevamo fare come volevamo – che poi in realtà era anche uno stimolo – ma di certo accontentare le esigenze di più paesi con lettorati dalle caratteristiche diverse difficilmente diventa un arricchimento. La tendenza è quella di appiattarsi un po’, per accontentare tutti. Siamo stati bravi, gli autori sono stati bravi, a non cedere mai».

Straziami ma di merchandising saziami

Quando la testata prese il volo nelle vendite, Disney fece quello che sapeva fare meglio: lo sfruttamento commerciale. Il merchandising griffato W.I.T.C.H. invase i negozi. Arrivarono i giocattoli, i videogiochi, persino un adattamento manga – caso unico per un fumetto italiano – e una serie animata. Nel tentativo di non snaturare il prodotto, Artibani si spese come consulente per la serie, ma l’intenzione dei produttori era di realizzare un cartone per un pubblico anche maschile, mutando in profondità lo spirito del fumetto. Lo show era tutto spostato sul piano magico, forse perché si considerava l’intreccio delle vite adolescenziali poco interessante. Togliere quella parte significava annacquare, perdendo l’identità che la contraddistingueva.

Inoltre, il processo decisionale era molto lungo e laborioso e questo ostacolò indirettamente la fidelizzazione del pubblico. «Partecipai ad alcune riunioni in Francia con la casa di produzione che realizzò il cartone animato» rivela Artibani, «ma la struttura elefantiaca della Disney ci frenò, paradossalmente, invece che aiutare. Perché queste cose funzionano quando c’è una macchina agile che produce in fretta, vista la natura generazionale del prodotto. Le ragazze nel giro di tre anni le hai perse. Il pubblico che ti segue a 12 anni, a 15 anni già ti volta le spalle perché passa ad altro».

Uscito nel 2004 e durato soltanto due stagioni, il cartone delle W.I.T.C.H. sarebbe dovuto essere uno dei tasselli che avrebbero ampliato l’eco del franchise. «Stiamo costruendo un impero multimediale che includerà libri, cartoni animati tv, un lungometraggio per le sale, giocattoli, vestiti e oggettistica» annunciava all’epoca Deborah Dugan, presidente della Disney Publishing Worldwide. W.I.T.C.H. era finito sul Washington Post, c’era perfino una collezione di vestiti firmata Oviesse. Sembrava che le cinque streghe fossero sul punto di raggiungere massa critica ed esplodere come una supernova. Finché non arrivò Iginio Straffi.

Streghe contro streghe

Alla Disney non pareva vero che Rainbow, il piccolo studio d’animazione delle Marche di Straffi, li stesse superando con un progetto molto simile al loro. Creata nel 2004 per conto della Rai, Winx Club ha come protagonista un gruppo di ragazze dotate di poteri magici che studiano per diventare fate alla scuola di Alfea, situata nel mondo di Magix. W.I.T.C.H. e Winx erano entrambe serie sulla magia, sull’amicizia femminile, le ispirazioni erano le stesse e i due gruppi avevano perfino le ali – Winx è una storpiatura di “wings” (“ali”). 

Nel 2005, La Stampa riportava che i prodotti Winx Club avevano raccolto 200 milioni di euro, di cui 40 solo in Italia, dove una bambola su tre portava il logo delle fate. C’era lo zaino delle Winx, il quaderno delle Winx, lo spettacolo teatrale delle Winx, il fumetto delle Winx. Qualcuno stava facendo la Disney meglio della Disney.

Il colosso si lasciò andare a una reazione scomposta. Non potendo rivalersi su nient’altro, fece causa alla Rainbow pretendendo che venisse ritirata dalle edicole della nazione la serie a fumetti, curata da Coniglio Editore. «La causa contro le Winx è stata la mossa di una struttura gigantesca che si vede superare a destra da un fenomeno che non sono riusciti a comprendere» spiega Artibani, che era coinvolto come autore di entrambe le serie.

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«Io scrivevo Winx con la consapevolezza di fare due prodotti diversi. La gara a chi fosse più originale è persa in partenza da tutti e due i progetti, perché i modelli erano dichiaratamente Harry Potter e Sailor Moon. Le produzioni partirono nello stesso momento, le Winx arrivarono dopo perché erano cartoni. Io avvertii entrambe le parti che stavo lavorando a due progetti simili. La richiesta era di non fare nulla che avessero punti di contatto, per non dare adito all’accusa di plagio, che è arrivata lo stesso ma è stata respinta dal giudice di Bologna».

Invece che contrastare il nemico con la potenza di fuoco di cui disponeva, inondando il mercato di prodotti W.I.T.C.H., Disney perse il polso della situazione. Erano tutti spaesati. Un giorno, Umberto Virri, presidente di Walt Disney Company Italia, telefonò a Gnone dicendole «Ma Elisabetta, perché hai inventato le Winx che ci vengono contro?» (Gnone non aveva avuto niente a che fare con le Winx).

«Eravamo molti arrabbiati» riconosce De Poli. «All’epoca mi capitò di andare a Glendale per una settimana di team building. Le pareti erano tappezzate dai bozzetti delle Principesse Disney e io non mi spiegavo perché avessero tutto quello spazio rispetto a W.I.T.C.H.. Continuavo a dire “Non potete non capire che è un marchio fortissimo”. Vivevano le W.I.T.C.H. come una cosa che non era loro».

L’euforia attorno a Will e compagne durò fino al 2008, quando le vendite iniziarono a scemare, per poi crollare a picco nel giro di tre anni. Nel 2012, dopo aver mutato la propria forma (più enfasi sui redazionali, storie autoconclusive) e aver raggiunto i 139 numeri, la testata chiuse. W.I.T.C.H. era un fuoco che andava tenuto costantemente vivo e in perenne rinnovamento. «In Francia si direbbe che W.I.T.C.H. era un cadeau empoisonné, un “regalo avvelenato”» dice Barbucci. «Era stato pensato con un orizzonte temporale di massimo sette anni, la durata di un ciclo di un manga semi-realistico dove i personaggi si evolvono. Quindi in nuce il progetto richiedeva che i personaggi crescessero.»

Secondo De Poli, il fatto che le W.I.T.C.H. non fossero agganciate agli standard character era stato motivo di novità all’inizio ma condanna alla fine: «PK è andato via per qualche anno ma il personaggio restava vivo. A W.I.T.C.H. mancava questo riferimento. E poi le ragazzine si sono emancipate con un’accelerazione pazzesca rispetto ai gusti. Alla fine non riuscivi più a stare loro dietro. Il primo pubblico ad aver annusato il cambiamento e la rivoluzione digitale è stato quello femminile, con tutto il loro mondo, della moda e del beauty, che si è trasferito sul web. A un certo punto non avendo subito un’evoluzione le cinque ragazze non erano sufficientemente credibili presso il pubblico di riferimento».

«Ci sarebbero stati i modi per mantenere vivo il franchise, e questa fu una delle grandi litigate che feci con l’editore, sul fatto di farle crescere e di darle una seconda generazione, per seguire i lettori nella crescita e conquistarne di altri.» L’idea era di riportare in scena il gruppo ma allo stesso tempo aprire la strada a una nuova generazione di eroine. De Poli si scontrò con i suoi superiori, che non volevano sentir parlare di personaggi cresciuti – per lo stesso motivo avrebbero posto il veto su una storia in cui Tip e Tap diventano vecchi.

W.I.T.C.H. alla sbarra

Quella con le Winx non fu l’unica causa legale che travolse le cinque streghe. All’inizio degli anni Duemila Barbucci e Canepa fecero causa alla Disney per i diritti morali e d’autore sulla serie. Volevano cioè che il loro ruolo nella creazione dei personaggi fosse riconosciuto ufficialmente, attraverso una dicitura e una percentuale sui guadagni.

Fu l’inizio di un periodo complicato per i due autori, che si separarono – lui emigrò in Spagna, lei in Francia – e vissero con amarezza il successo di W.I.T.C.H.: «I nostri amici che lo vedevano nelle edicole ce ne parlavano, vedevamo gli zainetti sulle spalle dei bambini, il merchandising era ovunque. E ogni volta che qualcuno lo nominava ci saliva il magone».

«Eravamo alla fine di un periodo molto faticoso. Avevamo dovuto superare le prese in giro dei colleghi – “Che vai a fare, le streghette?” – e i rifiuti degli editori che dicevano “Piuttosto che pubblicare W.I.T.C.H. mi licenzio”» racconta Barbucci. «Ci dissero che se fossimo rimasti per sei mesi a curare la direzione artistica avrebbero stipulato un contratto in cui mettevano nero su bianco i nostri meriti. Venimmo pagati per il nostro lavoro ma quel contratto non si concretizzò e quindi andammo per avvocati. In un’altra situazione avremmo detto “Vabbè, ci siamo fatti fregare come al solito, poco male”, ma in questo caso fu la proverbiale goccia che fece traboccare il vaso.»

Forte del proprio ruolo all’interno dell’azienda e come condizione per una fuoriuscita senza strascichi legali, Gnone riuscì a ottenere il titolo di creatrice della serie, attestazione che compare in ogni pubblicazione di W.I.T.C.H. (senza che lei percepisca diritti d’autore). Barbucci e Canepa, in qualità di esterni, non avevano la stessa leva contrattuale con cui forzare le trattative e furono costretti a portare la faccenda davanti al tribunale di Milano.

La sentenza del giudice riconobbe che W.I.T.C.H. era una creazione collettiva, «facendo un torto ai due fumettisti» commenta Artibani, che testimoniò al processo, «perché, sì, era una creazione collettiva come PK o Mickey Mouse Mystery Magazine, però un punto di origine lo aveva avuto e quel punto di origine era il lavoro di Alessandro e Barbara. Erano in una posizione fragile, erano autori senza potere contrattuale e i diritti morali sono stati negati loro come prepotenza finale».

Con W.I.T.C.H. la Disney scoprì che gli autori avevano un valore aggiunto, non erano mercenari assoldati per un compito o custodi di un’eredità, portavano creatività, idee nuove, ma ne andava riconosciuto il merito. «Avrebbe potuto essere stato gestito diversamente nei rapporti. La Disney diede il suo peggio, non fu un bello spettacolo.»

La major stava combattendo una battaglia che avrebbe potuto costituire un precedente pericoloso, ma era al tempo stesso timorosa perché non voleva inimicarsi i talenti in ascesa di Barbucci e Canepa. Provarono prima a comprarsi Sky Doll e poi diedero il via a una serie di collaborazioni per replicare il successo di W.I.T.C.H.. Questa volta, però, le produzioni furono affidate a uno studio esterno, la Red Whale di Katja Centomo e Francesco Artibani, e i creatori delle serie detenevano i diritti morali e patrimoniali. Barbucci e Canepa parteciparono all’avventura di Monster Allergy, un altro buon successo multimediale, che sancì il loro addio alla Disney, «perché poi arrivò la lettera degli avvocati e iniziò il processo per W.I.T.C.H.» chiosa Canepa. Il fermento attorno alle produzioni di Disney Italia si dissipò e W.I.T.C.H. rimase l’apice di un periodo che avrebbe potuto trasformare il settore, almeno nel nostro paese.

Quando Barbucci e Canepa ne parlano, si percepisce l’infelicità che strappava la membrana di quei giorni. La paura dei due, al di là dei meriti patrimoniali sull’opera, era quella di venire cancellati dalla Storia del loro fumetto o di precludersi progetti futuri. Mentre Gnone, grazie alla nomea di creatrice, fu contattata da Piemme per scrivere un libro fantasy che si sarebbe trasformato nella popolare serie per ragazzi Fairy Oak, Barbucci ricorda che, quando fu organizzata una mostra su W.I.T.C.H., i curatori evitarono di esporre i suoi originali o di nominarlo nei testi. «C’erano solo le tavole delle persone a cui avevo insegnato a disegnare.»

In questa narrazione, il ruolo di Barbucci e Canepa si riduceva a quello di esecutori di volontà altrui. Era una questione di soldi, ma anche di principio. Per fortuna, la piega degli eventi avrebbe dissipato questa versione. Nonostante a oggi su ogni pubblicazione italiana del fumetto una scritta nel colophon avvisi i lettori che W.I.T.C.H. è una “serie creata da Elisabetta Gnone”, Barbucci e Canepa sono informalmente riconosciuti da tutti come la forza propulsiva del progetto.

Persa la causa, i due furono comunque in grado di costruirsi carriere importanti all’estero, lasciando un segno sul fumetto di primi anni Duemila (Barbucci ha lavorato per Soleil, Glenat e Dupuis; Canepa, oltre che autrice, è diventata direttrice editoriale di due collane per Soleil). «Ora grazie alle reti sociali ho fatto pace con questa cosa» confessa Barbucci, «perché ti rendi conto che nonostante tutta la sofferenze e le battaglie è stata un’esperienza eccezionale. Le lettrici sono rimaste toccate da quella serie e ancora oggi ci ringraziano, ricordandoci l’importanza dei personaggi immaginari per le persone».

Canepa riassume l’esperienza buttando lì una considerazione quasi banale: «Abbiamo messo le nostre vite dentro W.I.T.C.H. e poi abbiamo ricominciato». In fin dei conti, è quello che fanno tutti i bravi fumettisti.

Si ringraziano Barbara Canepa per le immagini, Loris Cantarelli e Federica Lippi per il reperimento delle fonti.

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