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Bonelli"Qwertyngton": la leggera, ironica follia del Dylan Dog di Vanzella e Genovese

“Qwertyngton”: la leggera, ironica follia del Dylan Dog di Vanzella e Genovese

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Nei circa 500 albi di Dylan Dog si può riconoscere un filone, battuto quasi esclusivamente da Tiziano Sclavi, di storie completamente surreali. Prendete ad esempio Golconda o La quinta stagione, in cui succedono mille assurdità insensate, e Dylan ne è poco più che spettatore. Oppure Tre per zero, ambientato in un paesino in cui la morte è andata in vacanza e per questo accadono cose impossibili, morti che non muoiono e operazioni matematiche con risultati che contraddicono le leggi dell’aritmetica. 

Qwertyngton – pubblicata sul numero 418 bis di Dylan Dog uscito a luglio – è una storia che rientra perfettamente in questo filone: Luca Vanzella e Luca Genovese hanno confezionato un racconto che riesce a stare in equilibrio tra canone e mimesi delle atmosfere sclaviane da una parte e narrazione più moderna dall’altra. 

La storia si basa direttamente su un topos di Sclavi: durante un’indagine, Dylan finisce in un paesino in cui succedono cose stranissime. Un po’ come 30 anni fa in I segreti di Ramblyn. Questa volta però la ragazza da trovare si chiama Jennifer e non Katinka, e il villaggio Qwertyngton e non Ramblyn, ma gli ingredienti non cambiano. 

Chi conosce bene la serie capisce subito cosa aspettarsi dalla storia, e perfino la conclusione non risulta così incredibile. Vanzella e Genovese intrappolano Dylan nel villaggio, lo tempestano di assurdità (personalmente ho amato i lavori stradali per il ripristino del punto di fuga) finché – piccolo spoiler – lui non accetta l’anormale normalità della quotidianità di Qwertyngton. È un gioco di cui sappiamo già le regole, che però non risulta ripetitivo grazie alla freschezza delle invenzioni della coppia di autori. Niente gag riciclate, citazioni forzate o surrealità che puzza di stantio, ma vere trovate fantasiose pensate per confondere e far sorridere. 

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La forza di questo albo – e in parte la sua originalità rispetto al modello sclaviano – sta infatti nella miscela di ironia e assurdità
Dylan Dog ha sempre fatto ridere in molti modi (tranne che con le battute di Groucho). Anche nei momenti di orrore più puro, la serie non si prende (o meglio: non si dovrebbe prendere) troppo sul serio.

Sclavi spesso lo faceva con uno humour surreale un po’ alla Monty Python, decisamente sopra le righe. Era il contrappeso al sangue, all’eccesso, al folle: ridere dei broker che vengono squartati a ombrellate è una grassa risata liberatoria per una serie che ha fatto dell’orrore della normalità la sua bandiera. Oppure era un riso amaro, che colpiva il lettore con cinismo sadico. L’umorismo per sbatterti in faccia l’assurdità della vita. 

Vanzella usa un tono più lieve, un’ironia più sottile e consolatoria. I suoi personaggi sono persone ferite, che nell’anormalità cercano un centro di gravità. Le stramberie di Qwertyngton sono poco più di un grande gioco in cui è coinvolta la città, con le sue regole, folli soltanto finché non ne capisci il meccanismo. Le cose, anche le più surreali, non sembrano succedere “perché sì”, ma hanno una logica. Solo è necessario entrare nel gioco per vederlo. 

La bravura di Vanzella sta anche nel suggerire un senso profondo del racconto senza mai sbattertelo in faccia.
Quando mette in scena i suoi allucinati fuggitivi dalla normalità – l’uomo che si suicida ogni giorno, il negoziante con gli scaffali vuoti – non solo spinge il lettore a empatizzare con loro, ma fa percepire anche l’esistenza di un sottotesto per il quale, però, non fornisce alcuna chiave di decodifica. Non scrive allegorie decifrabili, solo sensazioni che si muovono sulla pagina, e lascia completamente al lettore qualsiasi interpretazione successiva.

Niente retorica, quindi. Niente paginoni strappalacrime sullo stare dalla parte degli ultimi e “i mostri siamo noi”. È più l’idea sottintesa che ognuno abbia diritto al suo posto dove non soffrire, a costo di stare in un mondo alla rovescia.

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Il segno di Genovese – compagno di Vanzella in mille battaglie fumettistiche, dalle prime autoproduzioni con Self Comics al “gonagaiano” Beta – è perfetto per questo. Come la scrittura del suo socio è più delicata di quella di Sclavi, così il suo segno è più fresco di quello classico di Piccatto, Montanari/Grassani o Brindisi. L’orrore (quel poco che c’è) non gronda sangue

Le tavole sono molto chiare, luminose, leggere, anche quando diluvia, e si alleggeriscono ulteriormente man mano che il protagonista procede nella sua esplorazione-accettazione delle balzanerie di Qwertyngton. Perfino il suo Dylan si adatta al mood, sembra più giovane del solito, come ad alleggerire ulteriormente l’atmosfera. 

Qwertyngton è una storia caratterizzata da fedeltà al personaggio e rispettoso rinnovamento, dettato da una diversa sensibilità rispetto a chi, trattando quelle stesse tematiche nella collana, li aveva preceduti. Una rappresentazione molto piacevole dell’Indagatore dell’incubo, scritta e disegnata con una chiara visione personale che si inserisce su una strada già battuta in passato.

Dylan Dog 418 bis
di Luca Vanzella e Luca Genovese
Sergio Bonelli Editore, luglio 2021
brossurato, 96 pp., b/n
4,40 € (acquista online)

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