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C’è un He-Man tutto nuovo su Netflix

masters of the universe revelation netflix

Annunciato e atteso come uno degli eventi dell’anno – almeno per la grande schiera di fan di He-Man e compagni – Masters of the Universe: Revelation è arrivata su Netflix, generando in poco tempo una netta frattura fra detrattori ed entusiasti. Questa nuova versione, concepita come un vero e proprio sequel della serie classica, è stata affidata a Kevin Smith (il regista di Clerks), grande appassionato dei personaggi, che è riuscito a realizzare un prodotto interessante, anche se con qualche limite.

Non era un’operazione facile: il franchise legato ai famosi giocattoli Mattel che hanno dominato il mercato e l’immaginario degli anni Ottanta non è mai morto, riemergendo negli anni in forme e media diversi, dai giocattoli per collezionisti ai fumetti, passando per altre e poco riuscite versioni animate.

La storia di Masters of the Universe: Revelation inizia là dove era finita quella che conosciamo, con Skeletor che cerca, per l’ennesima volta, di conquistare il castello di Grayskull. Gli effetti di questo suo attacco sono inaspettati, e toccha a Teela e ad altri compagni e compagne cercare di far tornare la magia su Eternia.

Non è facile analizzare Masters of the Universe: Revelation senza incappare nell’errore del confronto o nel vizio di giudizio segnato dalla nostalgia. Nell’aspetto tecnico e visuale, i risultati sono altalenanti. La serie classica, prodotta dalla Filmation, era il fulgido esempio di un modo di fare e intendere l’animazione che non esiste più e che incappava di frequente in fraintendimenti. He-Man e i dominatori dell’universo era realizzato con la tecnica dell’animazione limitata e, come le altre serie Filmation, presentava un ampio uso del rotoscopio.

L’animazione limitata è un modo di fare animazione che, a fronte di uno scarso budget o di una volontà intenzionale, sfrutta la sospensione dell’incredulità dello spettatore e rinuncia alla fluidità delle sequenze tipiche, per esempio, dell’animazione Disney. È un’animazione statica che, giocoforza, lavora su altri aspetti per coinvolgere chi guarda: la regia, la cura degli sfondi, la reiterazione di situazioni che creano un’intesa implicita con lo spettatore. Una delle critiche più frequenti, per l’appunto, riguarda la qualità tecnica percepita come inconsistente. Ma la forza e, se vogliamo, la bellezza delle produzioni Filmation, stavano proprio negli espedienti con cui gli autori generavano interesse e intrattenimento e che, appunto, non riguardavano la qualità tecnica.

Nel caso della serie Netflix abbiamo un prodotto tecnicamente mediocre. È evidente che le sequenze più curate, con una fluidità e una regia un po’ più intraprendente, sono dosate proprio in funzione di una gestione del budget a disposizione. E questo, in virtù della brevità delle puntate e del progetto in generale, è inaccettabile.

Kevin Smith e il suo team hanno optato per una rivoluzione del character design senza però stravolgere gli elementi riconoscibili della serie originaria. È distante dalla moda contemporanea, che vuole una linea più morbida, e dalle produzioni che si ispirano agli anime, mentre resta più ancorato a un’estetica specifica, in qualche modo legata a chi questa serie l’ha prodotta e curata: Powerhouse Animation. Non a caso il character design ricorda a tratti quello di Castelvania, altra serie animata realizzata da Powerhouse e presente su Netflix. 

Dove, invece, è stato fatto un lavoro egregio è nell’approfondimento della lore, che era già vasta e complessa ma che nella serie classica non era mai stata approfondita: una sorta di sfondo che aveva un suo fascino, di cui si intuiva la potenzialità, ma che non aveva una funzione specifica nello sviluppo narrativo. L’universo, la geografia, la storia secolare di questo mondo è qualcosa di vasto e affascinante e qui esprime tutta la sua bellezza, intersecandosi con la linea narrativa principale. La componente magica e fantastica prende il sopravvento e in soli cinque episodi è gettata la base per un universo stratificato e complesso, elemento che influisce, e non poco, nell’aspetto puramente visuale, definendo l’estetica della serie. 

Non era facile, si diceva. Perché la fanbase legata ai Masters è uno zoccolo duro inamovibile e che pretende molto. Ciò che Kevin Smith ha compiuto con Revelation è stato coniugare il passato con il futuro. Ha realizzato un’opera che soddisfa gli appassionati, chi con quei personaggi ci ha giocato da bambino/a e con essi ha un legame emotivo, inserendo figure, fattori, citazioni senza risultare eccessivamente deviato verso l’approccio nostalgico duro e puro. 

Smith ha persino inserito elementi che esistevano solo nel mondo dei giocattoli, a dimostrazione che il destinatario non è lo spettatore della serie classica ma chi ha un legame con l’oggetto ludico che, ad oggi, continua ad avere un mercato florido fra i collezionisti. Insomma, uno sguardo al passato, ma che non si limita a essere solo quello. Perché Smith, sin dal primo episodio, ha messo le cose in chiaro. [SPOILER] Ha eliminato il protagonista, colui che tutti adoravamo, l’eroe invincibile per eccellenza. E al suo posto ha messo un gruppo di personaggi improbabili, colmi di insicurezze e dubbi.

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In una serie che, negli anni Ottanta, era stata pensata prevalentemente per i maschietti (tanto che dovettero creare lo spin-off She-Ra per accontentare la fetta di mercato femminile), Smith ha aggiornato e superato inoltre il concetto di mascolinità e ha reso protagonista Teela. E con lei Evil-Lyn. E persino Orko, che nella serie classica era un po’ insulso, qui ha preso quella sua inutilità e l’ha trasformata in una complessità psicologica ed etica. [FINE SPOILER]

Il colpo di scena finale – un cliffangher che però, a dirla tutta, rivela come andrà a finire questa serie – definisce ulteriormente l’intenzione di trasformare un franchise un po’ stantio in un’opera che, pur con i suoi limiti e difetti, mette al centro le complessità contemporanee come il ruolo della donna nella società moderna e anche l’accettazione delle proprie fragilità, che viviamo come difetti ma che sono scomode eredità, pensieri che appartengono a generazioni precedenti alla nostra, il cui peso grava sulle nostre spalle ma di cui non abbiamo colpe. 

Riuscirà Kevin Smith a creare una inedita fanbase nelle nuove generazioni e, contemporaneamente, portarsi dietro i quarantenni legati al titolo? Lo scopriremo solo con il tempo ma, se non altro nelle intenzioni, questo Masters of the Universe: Revelation è un prodotto più che lodevole.

Leggi anche: “She-Ra e le principesse guerriere”: libertà e accettazione

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