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Disney“Topolino e l’enigma di Mu”, Massimo De Vita tra mistero e avventura

“Topolino e l’enigma di Mu”, Massimo De Vita tra mistero e avventura

In oltre sessant’anni di carriera, Massimo De Vita ha lavorato con i principali sceneggiatori di Topolino, disegnando quasi cinquecento storie. Ne ha scritte lui stesso una cinquantina, tra avventure esotiche, saghe leggendarie, thriller e commedie urbane, illustrandole sempre in prima persona.

Un posto d’onore nella sua produzione da autore unico spetta a Topolino e l’enigma di Mu, pubblicata nel 1979, che gli fece compiere un grande passo in avanti verso la maturità artistica e dove comparve un nuovo personaggio, il misterioso professor Zapotec.

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Un vecchio (nuovo) legame

Zapotec ha decifrato il linguaggio di un’antichissima civiltà, ma teme che qualcuno voglia ucciderlo e appropriarsi delle sue scoperte. Chiede quindi aiuto a Topolino che, incoraggiato da Pippo, glielo offre, e per tutti e tre ha inizio una serie di peripezie che li porta in Medio Oriente e in Micronesia, alla ricerca dell’albero della vita, il mitico talismano che restituisce la gioventù. Sulle loro tracce però c’è il perfido Doriano De Vulpis, un collega di Zapotec che si è dato al crimine e che si è impossessato di un reperto fondamentale per ritrovare l’artefatto.

A prima vista poteva sembrare una storia come tante, che partiva da un’intuizione classica per poi arricchirsi di azione e colpi di scena, proprio com’è tipico delle migliori avventure a tema archeologico (Steven Spielberg ne sa qualcosa). Ma qui c’era molto di più. Da un lato De Vita introdusse alcune soluzioni narrative che gli permisero di svecchiare il genere, come i quattro attentati al professore, uno più spettacolare dell’altro, o il vasto teatro della vicenda, che abbraccia tre continenti. Tutto questo, due anni prima che Indiana Jones conquistasse il favore del pubblico e di conseguenza in largo anticipo sulla nascita del suo omonimo Disney, Indiana Pipps (cugino di Pippo creato nel 1988 da Bruno Sarda e Maria Luisa Uggetti).

Dall’altro lato, invece, l’autore gestì i vari personaggi da vero sceneggiatore di razza, non solo creandone di nuovi e convincenti, ma anche, soprattutto, dando lustro a quelli canonici come Topolino e Pippo, che mai come allora risentivano di una scrittura svogliata, poco fedele alla tradizione del loro legame. Pippo, del resto, non era stato usato da Floyd Gottfredson per agevolare Topolino, per dare l’impressione che fosse un ragazzo sveglio che si prendeva cura di un amico un po’ sciocco, come spesso succedeva in Italia. I due si erano trovati in conflitto fin dal loro primo incontro, agendo l’uno all’insaputa dell’altro, avendo idee completamente diverse e litigando spesso pesantemente. Ma, come sappiamo, la loro amicizia non era mai stata messa in discussione.

Sopra: striscia di Floyd Gottfredson del 16 ottobre 1933; al centro: ‘Topolino e il cavatappi di Tuzco’, di Romano Scarpa (1975); sotto: ‘Topolino e l’enigma di Mu’ (1979)

I Disney italiani avevano sminuito questa complessità. Per molti di loro Pippo era soltanto un tipo strano, che più che aiutare Topolino finiva per eseguire ogni suo ordine con aria contrita, senza un briciolo di iniziativa. Sapeva solo riempirsi la bocca di idiozie e il suo modo di fare non aveva nulla a che vedere con l’atteggiamento svampito, quasi bambinesco delle origini. Pur essendo un grande amante delle strisce americane, anche Romano Scarpa era caduto nella trappola della semplificazione in più di una circostanza. Ma si era ripreso quasi subito, e negli anni Settanta il rapporto tra Topolino e Pippo nelle sue storie era il solo a presentare qualche attrito, tanto che a volte i loro bisticci rivestivano la struttura portante della vicenda.

Un discorso analogo vale per L’enigma di Mu, che non a caso si apre con un piccolo diverbio tra i due. In alcune occasioni inoltre De Vita trovò lo spazio per una frecciatina o uno screzio, come quando Topolino ricorda ai lettori la proverbiale sbadataggine di Pippo («Lo conosco fin troppo bene»), o quando questi si ritrova a dover cambiare una gomma da solo, senza l’aiuto dell’amico («Se invece di teorizzare scendesse a dare una mano…»).

Per certi versi è proprio Pippo il vero punto di forza della storia. Non è più un buffo deus ex machina, buono solo per abbassare la narrazione (e il suo protagonista) a un livello di lettura più semplice, come in molti fumetti di Guido Martina o di Gian Giacomo Dalmasso. Nella penna e nella matita di De Vita dimostra tante sfaccettature diverse, dal senso di colpa alla rabbia passeggera, dalla voglia di fare allo strazio per la presunta scomparsa dell’amico, dall’ingenuità all’acume (solo grazie a lui verrà ritrovato l’albero della vita). Il disegnatore milanese era sulla buona strada per trasformarlo nell’eroe della Tetralogia dell’Argaar, dove per una volta avrebbe ceduto a Topolino il suo ruolo di spalla.

L’Oriente secondo Massimo De Vita: moschee, cupole, canti devozionali e una bifora che squarcia l’oscurità. La maturità stilistica era solo una questione di tempo

Tra Scarpa e Barks

Molti lettori ricordano con piacere L’enigma di Mu anche per via dell’aderenza ai fatti storici e dell’accuratezza scientifica con cui sono trattati. Le tante digressioni antropologiche sul mito di Atlantide e sui suoi abitanti non intaccano minimamente lo svolgimento, anzi, permettono alle scene d’azione di spiccare con forza, rappresentando la causa stessa del loro svolgersi. Inoltre parole come “casta”, “guerre fratricide”, “carbonio-14” o “permissivismo” conferiscono alla vicenda un tono adulto, risultando però comprensibili anche dal pubblico più giovane senza tramutare la storia in una lezione di fisica, sociologia o archeologia.

Anche in questo frangente De Vita aveva fatto propria la lezione di Romano Scarpa. Per non rendere noiosi i monologhi del professor Zapotec aveva ridotto la parte testuale a una sorta di sottile filo narrativo, necessario ma del tutto funzionale a valorizzare ciò che contava, cioè le figure. In questo modo al lettore era richiesta un’attenzione duplice, con un occhio alle parole e uno alle immagini, che spesso si rivelavano tanto informative quanto le prime – se non di più.

Eppure quello di Scarpa non è il primo nome a cui capita di pensare quando si osservano le tavole di Topolino e l’enigma di Mu. De Vita doveva tantissimo anche (e forse soprattutto) a Carl Barks, omaggiato a più riprese in questa occasione, sia nelle scelte di regia sia nelle situazioni narrative, a tal punto che il terzo atto può essere spacciato per un collage tra Zio Paperone e le sette città di Cibola, citate anche in corso d’opera, e Zio Paperone e la cassa di rafano. Da qui in particolare l’autore si ispirò per il personaggio di De Vulpis che, proprio come Truffo de Arpagoni nella storia di Barks, finge di redimersi per annientare gli eroi in un secondo tempo.

‘Topolino e l’enigma di Mu’ a confronto con ‘Zio Paperone e la cassa di rafano’ (in alto a sinistra) e ‘Zio Paperone e le sette città di cibola’ (in alto a destra)

Rincorrendo la sintesi

De Vita stava per diventare il miglior disegnatore Disney degli anni Ottanta, e la storia conteneva già la maggior parte dei suoi marchi di fabbrica, uno su tutti la vignetta scontornata priva di sfondo, che dilatava il tempo fungendo da pausa. Questa tecnica era quasi una novità per le pagine di Topolino, abituate com’erano a una gabbia inflessibile di cinque o sei riquadri, e proveniva forse dai fumetti di Uderzo (o da quelli di Giovan Battista Carpi, unico disegnatore italiano a proporla all’epoca).

De Vita rincorreva la sintesi. Dettagli, sfondi e ambientazioni non catturavano ancora il suo interesse, che preferiva volgere a problemi di natura tecnica, come nelle scene molto lunghe e prive di azione. Qui era necessario garantire l’impressione di continuità tra le inquadrature senza mai muovere i personaggi, dando l’idea dello scorrere dei minuti. L’unica soluzione fu riprendere la situazione da tutti i punti di vista, proprio come durante il monologo di Zapotec in aereo, dove la regola dei 180° veniva infranta a ogni nuovo argomento citato nel discorso.

L’ambiguità di Zapotec

Per di più Zapotec era un personaggio ambiguo, sempre in bilico tra la perdita di sensi e il ghigno sardonico. Cambiare continuamente prospettiva quando parlava era utile per gettare un’ombra su di lui, sul suo passato e sulle sue reali intenzioni. Non sembrava appena uscito da un fumetto di Barks o di Scarpa, dove i nuovi interpreti come Gastone o Brigitta venivano introdotti con naturalezza, dando per scontato che conoscessero già da molto tempo il resto del cast. Nell’incipit De Vita mostrava il suo primissimo incontro con Topolino che inizialmente era anche un po’ incerto sul da farsi, se aiutarlo oppure no.

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Topolino fa la conoscenza di Zapotec in ‘Topolino e l’enigma di Mu’ (sopra) e in ‘Topolino e il segreto del museo’ (2021, in basso), di Giorgio Fontana e Ottavio Panaro

«Non volevo inventare il solito professore», avrebbe spiegato l’autore in un’intervista. «Ce n’erano già tantissimi, tipo Enigm. Zapotec è il re dell’equivoco: non è mai chiaro nelle sue questioni. Persino nella sua prima apparizione lo troviamo tra l’onesto e il disonesto». Infatti nel finale è proprio lui ad assumere il decotto a base di corteccia dell’albero della vita che lo fa diventare gretto e spietato. E nell’utilizzarlo di nuovo, anni dopo, De Vita non scorderà mai di mostrare la sua parte più cupa, oltre alla sua cultura enciclopedica.

In compenso quando Giorgio Pezzin e Bruno Concina fecero di lui una delle figure ricorrenti del ciclo della macchina del tempo, dal 1985, Zapotec fu sostanzialmente “normalizzato”. I due sceneggiatori concepirono una serie di storie in cui Topolino e Pippo erano spediti nel passato proprio dal professore, che nel frattempo era diventato il direttore del museo civico ma che finì per comparire solo nella cornice delle vicende, per illustrare le missioni agli eroi. Ben presto i litigi con Marlin, il suo nuovo collaboratore, lo trasformarono in una macchietta, e per moltissimi autori diventò uno dei tanti personaggi Disney davvero difficili da gestire, forse ancor più di quelli classici.

Da premiare, ma solo nelle intenzioni, è il tentativo di Giorgio Fontana di creare un reboot del suo primo incontro con Topolino, in una storia pubblicata a gennaio di quest’anno sul settimanale di Panini Comics. Al lato pratico un confronto tra le due versioni sarebbe impietoso. La vicenda più recente non aggiunge nulla all’episodio che omaggia e i due personaggi sono snaturati, privi di qualsiasi elemento che li identifichi. Ma nelle dinamiche Fontana si è rifatto proprio alle prime storie di Zapotec e al suo lato oscuro, facendo credere al Topo che il professore fosse colpevole di un furto archeologico, senza fargli fare la figura del custode del museo.

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La morale finale è un altro aspetto che accomuna Barks e De Vita

In ogni caso i punti deboli di questa riscrittura non fanno altro che mettere in evidenza i pregi dell’originale, la sua complessità e la sua influenza ad ampio raggio. Topolino e l’enigma di Mu, pur essendo una storia pensata per un pubblico che guardava al futuro, rese omaggio al passato in molti sensi.

Fece luce su una civiltà che rischiava di scomparire sotto il peso della leggenda che la precedeva (il mito di Atlantide e della vita eterna). Accolse, attualizzandoli, gli insegnamenti di due numi tutelari come Carl Barks e Romano Scarpa. E si ricordò di quanto fosse complesso e sfaccettato il rapporto tra due amici di vecchia data, aprendo una riflessione sui loro ruoli destinata a capovolgerli pochi anni dopo, con la Spada di Ghiaccio.

Leggi anche: “Zio Paperone e gli icebergs volanti”, tra ambientalismo e follia

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