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“The Book of Boba Fett”: fan service, ma fatto bene

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Da quando è gesito da Walt Disney Company, l’universo di Star Wars ha navigato a vista in maniera francamente anacronistica, lasciandosi andare a improvvisazioni dilettantesche in un mondo dove i franchise come quello Marvel pianificano con anni di preavviso le relazioni di forza che ogni produzione instaura con quelle attorno a sé. Non solo: per ora, la saga si è fatta tremendamente condizionare dal giudizio dello zoccolo duro dei fan, una frangia talebana di spettatori che non sa quello che vuole, ma solo quello che non vuole.

La seconda stagione di The Mandalorian ha voluto colmare entrambe le lacune, rendere Star Wars come il Marvel Cinematic Universe e prodigarsi ai piedi dei fan, ma senza farla sembrare una mancanza di amor proprio. The Mandalorian accontentava i fedelissimi con una devozione e una spietatezza rare. Se nella prima stagione tutto sommato uno spettatore non addentro al mondo di Star Wars poteva provare del divertimento, nella seconda tornata di episodi tutta l’impalcatura emotiva è sorretta dal presupposto che si conoscano i personaggi in questione. Poi, se c’era tempo, si poteva anche provare a introdurre nuove idee, personaggi o pianeti inediti. A The Book of Boba Fett, la nuova serie di Star Wars per Disney+, nonché spin-off di The Mandalorian, frega ancora meno di creare qualcosa di nuovo.

Insediatosi nel posto lasciato vacante da Jabba the Hutt (e poi Bib Fortuna), Boba Fett si trova a reclamare il potere facendo i conti con tutto il sottobosco criminale di Mos Espa, sul pianeta Tatooine, con lo scopo di dettare una nuova linea politica e cambiare la percezione che il popolo ha del potere. Nel frattempo, ripercorriamo i fatti che l’hanno portato dalla morte apparente nelle viscere del Sarlaac alla sua vita odierna.

Non c’è da stupirsi che, almeno in questo primo episodio (dall’ironico titolo Straniero, in terra straniera), The Book of Boba Fett sia così inginocchiato da confondere il soffitto con il pavimento. Di tutti i personaggi della saga, infatti, Boba Fett è il candidato perfetto per del buon fan service. Nato come figura di contorno, uscì di scena con un siparietto slapstick nei primi venti minuti de Il ritorno dello Jedi, dopo aver segnato appena qualche minuto di apparizioni sullo schermo, tra i due film in cui comparve.

Ma l’aspetto da cowboy fantascientifico e l’atteggiamento da duro lo avevano fatto diventare un beniamino del pubblico. Lo stesso George Lucas, quando comprese l’attaccamento per il personaggio, si disse pentito di averlo ucciso senza tante cerimonie e lo rese una parte fondamentale della saga nei prequel (tanto da aver pensato, a un certo punto, di farlo diventare il fratello di Darth Vader). La storia di Boba Fett è emblematica nel suo essere elevazione di un personaggio minore – che si fa forza soltanto del suo bell’aspetto – a icona, per accontentare le precise richieste del pubblico.

E così Boba Fett è diventato un oggetto narrativo la cui forza di attrazione è troppo forte per permettere agli autori di esplorare lo spazio aperto. L’esordio di The Book of Boba Fett ce lo mostra in una condizione non tanto diversa da quella di Darth Vader – l’idea di Lucas ora non sembra più così balzana – e circondata da un cast che mischia quello che avevano visto in The Mandalorian a volti della trilogia originale.

Sgombrato il tavolo da questo enorme difetto di deferenza, c’è da dire che, se proprio bisogna morire di fan service, questa è l’arma con cui spirare. L’episodio è formulato con tutti gli elementi al posto giusto e tante cose che piaceranno ai seguaci del franchise. E Temuera Morrison pare avere l’occasione di portare sullo schermo un personaggio che, finalmente, potrebbe smettere di vivere di rendita. 

Con questo titolo dal sapore religioso, The Book of Boba Fett si aggancia tanto a The Mandalorian quanto a Il ritorno dello Jedi, con una differenza cruciale. L’estetica del Ritorno dello Jedi era con tutte le scarpe dentro gli anni Ottanta: mostri ributtanti, veraci e bizzarri, ambienti sporchi, superfici sudate. La tecnologia si inceppava, ogni tanto saltava una molla, il cerone sulle facce era sempre troppo. La corte di Jabba, in particolare, era un abisso infernale di plastica e gomma, dove era chiaro che tutto quel mondo fosse stato inghiottito da una sordida decadenza che non risparmiava nessuno.

The Book of Boba Fett riprende quegli ambienti ma li lustra per bene, li pialla e passa una mano di lucido. E di colpo il deserto di Tatooine sembra più quello asettico di Dune che quello sgarrupato di Star Wars. I personaggi visti nel Ritorno dello Jedi qui hanno una strana e rassicurante croccantezza digitale che confonde ogni scena e rende Mos Espa un posto molto meno inospitale e pericoloso di quanto non sembrasse in passato.

The Book of Boba Fett è figlio di The Mandalorian e presenta la stessa volontà di epurare gli elementi sgangherati e bambineschi di quell’estetica anni Ottanta per proporre un’esperienza il più piacevole, pettinata e trasversale possibile. Obiettivo riuscito, per quel che vale.

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